“La letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta” scrive Fernando Pessoa.
La letteratura ci concede qualcosa di più rispetto alla natura: uscire da noi stessi per diventare altri.
Spesso è più bello un verso sul tramonto che uno stesso tramonto.
Perché sa cogliere il magico che non si può mai spiegare e riproporlo in forma di parole allusive, non descrittive.
Il Poeta chi è? Un fenomeno da baraccone, un deviante, uno che non appartiene alla normalità…
Ma cos’è la normalità?
Domenica in, gli ingorghi, i film di Natale, le barzellette sporche, le battute pesanti, la trivialità, la violenza…
Si tratta di identità massificate, libere dal pensiero di avere pensieri. E questa normalità non ci piace.
Dovremmo affermare una volontà di distinzione, di non massificazione. E la poesia ci indica una via possibile.
La poesia è nomade. Mai stanziale, ci fa attraversare l’animo umano.
E’ il territorio del possibile. E’ il regno della libertà.
Supera il mondo, forgiando mille mondi possibili con mille storie possibili.
Anzi mille e una. Come Sherazad.
Talvolta viene da domandarsi: perché si scrive?
Beckett risponde: perché non so fare altro.
Borges: sono molto più orgoglioso di quello che ho letto che di quello che ho scritto.
Tabucchi: si scrive perché si ha paura della morte? O perché si ha paura di vivere? Perché si ha nostalgia dell’infanzia? Perché il tempo è passato troppo in fretta? Si scrive per rimpianto o per rimorso? Si scrive perché si è qui e si vorrebbe essere là?
Baudelaire: si scrive perché “la vita è un ospedale dove ogni malato vorrebbe cambiare letto. L’uno preferirebbe soffrire accanto alla stufa, e l’altro è convinto che guarirebbe accanto alla finestra.”
O forse si scrive per gioco. Ed è un gioco che somiglia a quello dei bambini, di una terribile serietà.
Perché è un mettere tutto in gioco.
Come il sorriso della Giocanda, ineffabile, sempre pronto ricordarci il limite della conoscenza umana, l’imprescrutabilità dell’universo.
Ed è come se dicesse: ti è stato concesso di conoscere fino a qui, non puoi andare oltre.
E questo oltre è proprio il terreno dell’arte e della poesia.
Sono in tutti noi non scritte, queste storie a brandelli, ai poeti e agli artisti mettere nero su bianco.
Ruth Cardenas definisce la poesia “una crisalide esistenziale che sorvolando il deserto bianco della pagina, sogna di essere farfalla nella scrittura”.
Fammi farfalla
nelle tue braccia,
non voglio essere
amami con la certezza
dell’ascia sul legno vivo
e l’immediatezza di un monosillabo.
Gladys Basagoitia
Non per primeggiare scrivo
scrivo perché vivo
perché amo vivo
non per primeggiare vivo
per amare vivo.
Stevka Smitran
La nostra terra sono le parole
attraverso le quali i nostri avi salutano l’avvenire
le nostre parole uscite dalle feritoie
le nostre parole ricavate dalle petraie
le nostre parole levigate dal pudore
per il sangue profumato
per il sangue putrefatto
nel nostro sangue si crogiola la lingua
chi è poeta ovunque sa andare.
Maria Zambrano (Filosofia e poesia)
La poesia è stata in tutti i tempi,
vivere secondo la carne.
Ha costituito il peccato della carne fatto parola,
eternato nell’espressione, oggettivato.
Rosaria Lo Russo
Rosaria definisce la poesia “Peccato di gola, Per- vocazione, non solo comprensione ma compassione…”.
“La lingua poetante è la filiazione trasfigurante il discorso degli Altri in un’epopea massicciamente contaminata da dilaettismi, arcaismi, gerghi teatrali e televisivi e tutti i suoni che entrano nel bla-bla della lingua parlata, parole che dilagando nel trasmutare metabolico fermenta, cagliano, si decompongono e cambiano senso.”
E io, io che faccio in tutto questo? per dirla con Roland Barthes.
Voglio raggiungere l’essere attraverso la via del fare Lao Tsze.
Perché è il fare che so fare. Fare il pane, fare figli, ma anche fare pensiero e fare poesia, perché la mia storia non è stata ancora raccontata e la voglio rac-contare, perché voglio contare.
Ma raccontare significa anche ricerca della misura: contare le parole, selezionarle e sceglierle per evitare traboccamenti, disarmonie, sproporzioni, per non cadere nello strabocchevole, nel mieloso, nel detto e ridetto.
Essere quindi nella scrittura come luogo del non ordinario, con tensione di libertà e di consapevolezza.
Essere nella scrittura per passare dall’abitudine alla vita, alla ricerca della ragione della vita. Perché…
Io so che nulla mi appartiene al mondo.
fuorché il pensiero, fluttuo imperturbato
che vuol sgorgare dall’anima mia
e ogni istante giocondo in cui benigno un fato
di goder mi concede dal profondo.
Goethe
Kiki Franceschi prova a spingersi al di là dei confini della parola: “oggi grazie alle esperienze dei futuristi, dei lettristi, degli inisti, dei poeti visivi, possediamo una nuova lingua poetica, viviamo una nuova fase d’ampiezza del linguaggio e la visività della parola scritta è parte dello statuto letterario. E’ insomma nata la terza letteratura, come la definisce Sanguineti. Il poeta non è più il cantore del lamento, dei luoghi comuni, degli amori infelici, il poeta mira alla sintesi, ha ereditato dai lettristi e dai futuristi il fonema, l’onomatopeia astratta; il rapporto fra arte visiva e poesia è sempre più stretto, il colore delle vocali appare sui quadri, il movimento, la forma e la disposizione tipografica sono significanti poetici e anche il più tradizionale dei poeti lo sa.”
Giusi Quarenghi cattura il fare… “Fare poesia è fare come se… Se di una scopa dico: ‘facciamo come se fosse il mio cavallo’, io so che nessuno mi prenderà. Il ‘come se’ mi salva. E allora la p mi salva e dico: fare poesia è come fare il pane. Poesia viene dal greco poièo che significa fare. Quindi non ispirazione, divinità, mistero, semplicemente fare. La parola pane è già una dispensa, anche sapienziale; si aggira nei proverbi con forte valenza ossimorica, perché contiene tanto la sazietà, quanto la fame, la vita e la morte, la necessità e il desiderio. La rivoluzione e la schiavitù. Quante rivoluzioni per il pane. Quanti servi e quanti lacché per il pane (e per il companatico!).”
Elisa Biagini scrive “quando scrivo di solito lavoro su un tema che ho studiato e approfondito, quindi il contenuto ha la priorità: Solo successivamente quando il materiale è stato digerito, emergono le emozioni che a questo si legano, emergono le immagini forti. E poi è il momento del suono, dell’armonia che spesso bilancia l’intensità delle immagini, un contrasto caldo-freddo, un dickinsoniano fuoco dentro il ghiaccio.”
Andrea Zanzotto dice “… quando si scrive poesia si è costretti a partire per scrivere qualcosa, ma non si sa mai quello che apparirà. C’è veramente un momento in cui uno perde il contatto, non dico con la progettualità, ma addirittura con la compulsione sotterranea che lo spinge a scrivere senza sapere neanche il perché, sente che deve scrivere entro un largo campo di argomenti, ma poi che cosa nascerà?”
Non può saperlo perché esiste uno strato in tutti noi che comunica con tutti noi, come un inconscio collettivo che attraversa anche le lingue e i tempi. Da qui attinge chi fa poesia.