L’occasione di un grande viaggio
28 Luglio
E’ primavera. Scatta la voglia dell’India. Il gruppo è ancora quello storico, anche se parte diviso: cinque con l’Aereoflot, due con gli Emirates. Io volo con l’Aereoflot, che parte nel primo pomeriggio del 28 luglio. Parte con due ore di ritardo, sufficienti a farci perdere, a Mosca, la coincidenza per Delhi.
Passo da Mosca dopo undici anni. In realtà un secolo per quanto è accaduto. Sì, mi era capitato anche in passato di dover sopportare lunghe ed estenuanti file di fronte al controllo passaporti o alla severa dogana; speravo però che qualcosa fosse cambiato e speravo in meglio. Invece! Si ripetono lunghe file attonite, ancora più stanche e svogliate, con l’aggiunta di quel tasso di arroganza del personale di servizio che riduce ulteriormente la nostra capacità di sopportazione. Serviranno oltre tre ore prima di essere condotti all’Hotel, di fronte all’aeroporto, per la cena ed il pernottamento, come prescrivono le regole internazionali. Ma prima, durante le tre ore, succede quasi di tutto e forse di più. Intanto, le prime piacevoli relazioni con gli sventurati compagni di viaggio. Fra questi, i più sono immigrati in Italia dal Bangladesch. Sono tanti e vivono a Vicenza, Roma, Firenze, Guastalla, Montevarchi. Rappresentano un singolare esempio di gentilezza e simpatia, che vogliono socializzare anzitutto sentimenti di amicizia. Sono anche l’esempio di chi è abituato a prove ben più difficili e quindi pronti alla più totale e scontata sopportazione. Fra gli italiani si distingue un simpatico catanese, che vive a Roma e commercia con l’Agenzia Marcopolo di Udaipur. Si chiama Mimmo (il caso volle che sulla via di ritorno si incontrasse di nuovo a Mosca) e suggerisce di promuovere una qualche forma di protesta, soprattutto per accelerare il nostro trasferimento in Hotel, trasferimento che qualcuno comincia a mettere addirittura in forse, visto che il tempo passa senza che succeda granché. Chi mi conosce sa quanto io sia ben disposto di fronte a simili proposte sobillatrici: un po’ perché in questo caso giustificatissime, un po’, lo ammetto, anche per carattere e a prescindere. Era successo così anche all’aeroporto di Bucarest, tredici anni prima, in una situazione analoga, anzi, ancora più disperata. Tocca dunque a me, sperando in un certo seguito. Mi sbaglio. Gli amici si limitano a qualche urlo e a qualche fischio, ma niente più. Poi Mimmo ci spiegherà di avere il passaporto non troppo in regola con i visti e quindi non se l’era sentita di rischiare. Dobbiamo crederci? Chissà! Confesso, oggi, di aver forse un po’ esagerato. Fatto è che arriva la polizia: mi circonda, mi strattona qua e la con evidente cattiveria, mi minaccia fisicamente, partono i bottoni della camicia e soltanto l’intervento di Sandra e degli amici del gruppo evita qualcosa di peggio.
Intanto il tempo scorre sempre più lentamente; in aeroporto siamo ormai rimasti in pochi. Si passano ancora tre volte gli sportelli di controllo poi, finalmente, dopo oltre tre ore, come ho detto, ci conducono al “ Novotel”, dove si consuma una discreta cena prima della consegna delle camere, dove restiamo, praticamente segregati, fino all’ora della sveglia.
Domenica 29
Una breve ma intensa dormita ci rimette in sesto. Alle cinque del mattino siamo già in viaggio per l’aeroporto che sta di fronte, a non più di qualche centinaio di metri. Le operazioni di imbarco questa volta risultano sbrigative. Hanno una voglia matta di spedirci al più presto.
L’aereo è un vecchio modello. Cattiva manutenzione, ma ottime condizioni di agibilità: larghi spazi, sedili comodi e per di più poco affollato, talché il viaggio risulta davvero confortevole e rilassante, durante il quale si sviluppano ulteriormente le nostre relazioni con gli amici di viaggio. Insomma, un volo al di sopra delle nostre aspettative salvo, come d’altronde prevedibile, un pessimo servizio di ristorazione, che peraltro scambia la colazione con la cena e viceversa, ovvero intorno alle otto del mattino ci servono un piatto composto da pesce, patate, cetrioli e intorno a mezzogiorno, poco prima dell’arrivo, una parca e dolciastra colazione.
L’arrivo a Delhi è puntualissimo; il servizio aeroportuale si svolge in modo rapido e senza troppi impicci. Anche il trasferimento in città non riserva particolari problemi, pur avendo deciso di usare l’economico autobus di linea che ci porta alla stazione ferroviaria in non più di quaranta minuti. Poi un taxi multiplo, poche rupie e si arriva, intorno alle quattro del pomeriggio, all’Hotel “Metropolis “, scelto preventivamente, fidandoci della guida, allo scopo di garantirci un punto di riferimento sicuro per l’incontro, due giorni dopo, con Gianni e Stefania.
Stanchissimi, per le molte ore e le tante traversie, si tenta comunque di trattare le migliori condizioni, ma il cerbero addetto alla reception, poco simpatico ed anche in seguito mai troppo disponibile, ci “imporrà“ condizioni che continuo a dubitare corrispondenti alla qualità dell’albergo. Posto in un quartiere di confine fra la vecchia e la nuova città, è confuso in un immenso oceano di gente, che si confonde a sua volta con mucche, maiali, cani, cinghiali, montoni, scoiattoli e topi. Questo è il quadro che ci offre subito il preciso segno delle condizioni di vita del popolo indiano. E poi, naturalmente, una specie di piccole e sporche botteguccie, baldacchini sulla strada, ambulanti che vendono di tutto e di più. Uno scorrazzare impazzito di rischiò, parte condotti a mano, parte in bicicletta, parte a motore. Un brulichio impressionante, condito da odori nauseabondi che non ci lasceranno più, se non dopo la fine del viaggio. Immaginate le condizioni igieniche, con questa presenza sparsa e libera di migliaia e migliaia e migliaia di animali. L’inquinamento fa bruciare letteralmente gli occhi. Immergersi in quella bolgia, in quella baraonda di suoni, rumori e fumo denso è tuttavia automatico e naturale, anche se, come si potrà capire, molto problematico come primo impatto e per troppe ragioni. Ma la curiosità vince, ovviamente, ogni resistenza e ci suggerisce una rapida incursione nella “ Old Delhi “, dove le caratteristiche descritte a proposito del nostro quartiere qui si moltiplicano in tutti i sensi e in tutti i versi. Ci si sposta in taxi o in took-took; con gli autobus sarebbe impossibile tanto sono stracolmi, con gente aggrappata ogni dove e perfino stesa sul tetto.
E’ ormai buio, la città è soltanto tiepidamente illuminata, i marciapiedi sono già ricolmi da chi è costretto a sceglierli come proprio giaciglio notturno. Questa gente, questi scheletri vestiti di qualche brandello e brandelli essi stessi, si confondono così con le masse di immondizia, sotto qualche pianta, quand’è possibile, o sotto qualsiasi altro riparo, come a proteggersi, senza sapere perché e da chi. Bisogna fare molta attenzione per non calpestarli, dato che non ci aiutano neppure quei pochi stracci avvolti intorno alla vita, ormai ridotti allo stesso colore della loro pelle scura.
Le condizioni descritte ci consigliano di accelerare, stasera, l’abbandono della “Old Delhi”, forse anche nella speranza di situazioni più sostenibili in altra parte della città. Vedremo che non sarà così. Si torna in zona stazione, anche allo scopo di prenotare un mezzo (treno, auto, bus…) per recarsi il giorno successivo a visitare la città di Agra. L’ufficio prenotazioni della stazione è però ormai chiuso, ma non è difficile individuare un ufficio turistico capace di soddisfare le nostre necessità. Si discute su quale mezzo sia più conveniente sulla base di un rapporto costi- benefici; alla fine si opta per un bus organizzato per 35 turisti, che partirà all’indomani mattina dall’Hotel. Tutto fatto. Dunque, non resta che dedicarci alla nostra prima cena tutta indiana. Per fortuna ci si imbatte in un ottimo ristorante, fra i migliori di tutto il viaggio e sicuramente quello dove si gusta il miglior “pollo tandoori”. L’ambiente è accogliente, all’aperto, abbastanza fresco e, rispetto a tanti altri che visiteremo, anche decoroso sotto il profilo dell’igiene e della pulizia. Un’ottima scelta per un’altrettanto ottima cena. Ci voleva proprio, a quell’ora! Sono ormai le undici quando si rientra. Le camere sono accettabili: è tempo per una doccia copiosa che ci rigeneri e ci prepari al sonno che ormai incombe.
Lunedì 30
La partenza, al mattino, è prevista alle sette. Ci scontriamo, però, con il primo (dei tanti in avvenire) contrattempo; la partenza sarà infatti alle otto. La durata del viaggio è molto più lunga del programmato, tant’è che si raggiunge Agra non prima delle dodici. E pensare che fra Delhi ed Agra scorre uno dei pochissimi tratti di strada a quattro corsie di tutta l’India, anche se fortemente congestionato e caotico (così almeno ci pare, prima di conoscerne altri).
Appena arrivati, la prima visita è riservata al suo imponente Forte, che domina dall’alto l’area piatta della città. Oggi è soltanto meta di visite, soprattutto da parte del popolo indiano. Agli stranieri è riservato un trattamento tutto speciale, che consiste nel pagare un biglietto di ingresso ben venti volte superiore a quello praticato ai locali. E’ bello il Forte, ma non il migliore fra i tanti che in seguito visiteremo.
Il viaggio, come si è detto, è organizzato e come in tutte le parti del mondo alle visite d’interesse culturale si associano visite a negozi e ristorante. Questo programma non fa per noi, desiderosi principalmente di vedere e conoscere. Insieme ad un piccolo gruppo (una simpatica famiglia indiana, qualche straniero, ecc.) si abbandona l’itinerario programmato e, previo appuntamento presso l’autobus qualche ora più tardi, ci si dirige subito verso l’immacolato complesso Taj Mahal, circondato da giardini altrettanto affascinanti. Un vero e proprio gioiello di marmo, il più famoso e visitato monumento dell’intera India. Sì, colpisce anche la grandiosità, ma ancor più l’armoniosa prospettiva e la perfetta simmetria che accomuna mausoleo e giardini. E’ una sorta di monumento nazionale; un edificio a forma ottagonale, sormontato da una possente cupola centrale, a sua volta attorniata da quattro più piccole. Il tutto non può non impressionare. E’ qui che si è colti dal primo vero colpo di caldo, al limite della sopportazione. Un caldo umido, tanto umido che sono resi impercettibili persino quei rarissimi movimenti di lieve brezza che sono comunque accolti come miracolosi. Eppure siamo in presenza di ampi spazi verdi, di tanti prati e piante rigogliose. Ma tutto ciò non basta a rinfrescare la calura, resasi ancor più soffocante dopo un improvviso, intenso, ma per fortuna breve, scroscio di pioggia. Sandra cerca un qualche rimedio dotandosi di un ventaglio, anzi, di un vero e proprio sventolo che acquistiamo da uno dei tanti “commercianti“ ambulanti.
Alle cinque del pomeriggio, dopo esserci alimentati con qualche banana, si riparte ed alle sei siamo a Mathura, una delle sette città sacre degli indù e sede mondiale degli Arekrishna. Una visita rapida, ma non per questo poco interessante. Tutt’altro! Si riparte, ma dopo qualche chilometro siamo all’incontro con una nuova comunità religiosa, dove si riscontra una devozione intensamente partecipata. Fra le altre cose tentano di coinvolgerci anche in qualche loro pratica, che però desta curiosità soltanto in Cristina.
E’ ormai completamente buio quando si riparte. Si spera di raggiungere Delhi in tempo utile per una cena, dopo una giornata trascorsa quasi a digiuno. Ancora però non siamo abituati ai tempi indiani, dove tutto scorre così tanto, tanto lentamente. Il bello è che il programma prevede anche un’altra sosta, quella per una cena da consumare presso baracche poste lungo la strada. Malgrado la protesta dei più, non si riesce a far modificare il programma, anche se scendono in pochissimi.
Soltanto oltre la mezzanotte si raggiunge Delhi, una città che non offre molto e comunque niente dopo le undici di sera. Pensare a qualche locale aperto è pura illusione; la città è praticamente spenta. Anche le mucche stanno oramai riposando, dopo le dure fatiche dovute al dover vivere e districarsi nel traffico micidiale di questa metropoli infernale. E si riposano insieme a tanti altri poveretti che anche stasera si sono sdraiati fin sulla soglia del nostro albergo.
Nessun’altra alternativa sembra dunque possibile rispetto al tentare qualcosa in albergo, dove ci preparano dei toast con “jam“ che confondiamo con “ham“ e quindi arrivano alla marmellata, anziché al prosciutto. Del resto come avrebbero potuto servirci del prosciutto, se è severamente vietato? Ma noi siamo all’inizio, siamo stanchi e così vogliosi di qualcosa di buono da farci immaginare possibile addirittura qualche fetta di prosciutto.
Martedì 31
Al mattino, in attesa di Gianni e Stefania ormai prossimi, si avvia una lunga trattativa per affittare un minibus per i prossimi giorni attraverso il Rajasthan. C’è più di una ipotesi, anche se alla fine quella prospettata dal servizio dell’Hotel risulterà la più convincente. Subito dopo si parte per visitare, di giorno, la “Old Delhi“, partendo dalla moschea del venerdì, la Jami Masjid, la terza del mondo per dimensione, che resta un capolavoro dell’architettura religiosa moghul. Poi una scorsa ad altre parti della città vecchia, senza però aver il tempo di visitare il “Red Fort“, che forse avrebbe meritato. Anche la Moschea è di colore rosso; si presenta davvero grandiosa e maestosamente scenografica, anche se non troppo animata dalla presenza di fedeli e per la verità neppure da troppi turisti che, come si sa, passano da Delhi soltanto per indirizzarsi verso altre mete. Una visita interessante, dunque, ma senza essere pervasi dalla sublimazione che avevamo provato visitando, anni fa, le moschee dell’Iran.
All’una siamo già rientrati e si abbracciano Gianni e Stefania. Ci si scambiano le prime impressioni, un breve resoconto di quanto accaduto fin qui e soprattutto i primi accordi per il prossimo futuro. Si pranza al ristorante interno poi, mentre i nuovi partono per una visita alla città, noi ci occupiamo di concludere l’affannosa trattativa per il nostro minibus. Nel pomeriggio siamo tutti nella “new”, una parte di città di scarso interesse, naturalmente di impianto inglese, anonima e simile a tante altre città anonime. E’ però il quartiere cosiddetto bene, con la presenza di bei negozi ed anche di bei ristoranti. Uno di questi sarà il nostro, dove consumiamo un’ottima cena a un costo, tutto sommato, accettabilissimo. L’ambiente è accogliente e anche un po’ innaturale rispetto a quanto visto finora; tant’è che all’ingresso chiedono a Cristina se preferiamo o meno di accomodarci nella zona “No smoking”.
Un po’ distratta, Cristina confonde la domanda “ No smoking “ con l’obbligo di indossare lo “smoking“ (vista, appunto, la qualità del ristorante); ma essendo tutti quanti vestiti tutt’altro che in stile – smoking ( stile, scommetto, neanche troppo diffuso in India ), la stessa Cristina fa per scusarsi, accennando per un attimo la via dell’ uscita, quando una risata fragorosa risolve l’equivoco e dunque possiamo accomodarci. Credo proprio che i nostri camerieri non si siano resi conto di nulla e forse saranno ancora a tentare di interpretare la causa di quella nostra improvvisa e rumorosa risata. Credo anche che non deve esser passata per offensiva, data la squisita accoglienza, l’impeccabile servizio e la qualità dei piatti serviti .
Mercoledì 1
All’ indomani è programmata la partenza alle otto, ma, per sbrigare le operazioni dovute al rilascio delle camere, c’è bisogno di quasi un’ora in più. Siamo finalmente pronti alla volta di Jaipur, dopo aver fatto conoscenza con i nostri due bravi autisti: Ram ( il titolare ) e l’aiutante.
L’attesa di Jaipur è grande, ma il tempo scorre senza macinare troppi chilometri. Eppure la strada è buona, il mezzo affittato anche e degli autisti si è già detto. Serviranno sette ore per arrivare, compresa però una sosta di un paio dedicata alla visita della maestosa fortezza di Amber, a otto chilometri dalla meta. Una splendida opera dell’architettura rajput, con decorazioni che rappresentano una mirabile sintesi di arte moghul e induista. Il Forte mette in tutta evidenza l’importanza di essere stata capitale fino alla fine del 1.700 .
L’arrivo nella città rosa – a Jaipur tutti gli edifici dell’ampio centro storico sono colorati di rosa – non delude le nostre aspettative. Dopo aver preso alloggio all’Hotel “Maya International “, si parte subito per una visita generale alla città.
Anche qui regna, ovviamente, il disordine naturale dell’India, ma l’impressione è comunque di una città più strutturata, con addirittura alcune zone limitate al traffico, con palazzi incantevoli che denotano la storia di una città con un passato significativo. Il centro cittadino, il Pink City, è contornato da una cinta muraria e l’impianto urbanistico si presenta tutt’altro che casuale, rispettando viceversa l’elaborazione di un vero e proprio progetto, degno di una qualche ambizione. Percorrendo la via principale, di fronte al Palazzo dei Venti, di cui dirò in seguito, la nostra attenzione è improvvisamente attratta da un altrettanto improvviso spettacolo messo in scena da un numero imprecisabile di scimmie. Sembrano avere anch’esse una formidabile familiarità col vivere cittadino, un po’ più ordinato come si è detto, ma anch’esso discretamente improntato al caos. Salgono sui tetti, scendono sui balconi delle case e da qui per strada, divincolandosi con maestria nel traffico cittadino. Girovagando qua e là, si visitano i negozi di pietre semipreziose e preziose, scortati da procacciatori d’affari (si fa per dire!) e soprattutto accerchiati da bambini, donne e vecchi elemosinanti, abituati quasi naturalmente a stendere la mano, con gesti che sanno di automatico, a prescindere da ciò che effettivamente riescono a racimolare. Si definisce dunque il programma per l’indomani, si cena presso il notissimo ristorante “Niros“ (l’aria condizionata rende quasi insopportabile la fredda temperatura interna ), poi tutti a dormire.
Giovedì 2
E’ abbastanza nota la mia meticolosità nel controllo di ciò che è assolutamente indispensabile per viaggiare: i soldi e il passaporto. Ma soprattutto quest’ultimo, specialmente in Paesi scarsamente domestici. Come ogni mattina anche stamani provvedo al rito quotidiano e scopro di aver smarrito ambedue i passaporti. Il panico è totale. Naturalmente tutto il gruppo è coinvolto, addirittura quasi più di Sandra che, essendosi lavati i capelli, sembra tenere più a completare l’operazione che non a dedicarsi alla ricerca.
I pensieri corrono a ciò che potrebbe accadere da lì a poco: telefonare in Ambasciata, preoccuparsi dei visti ( compreso quello di transito da Mosca, dopo quanto vi ho già detto ). Addio viaggio, insomma! Il gruppo è coinvolto, ma non di meno tutto il personale ( ed è tanto ) in servizio nell’ Hotel. Si mette sottosopra il salotto della Hall, dove la sera prima ci eravamo un po’ rilassati. Niente ! Passano minuti terribili. Le nostre valigie vengono svuotate almeno tre volte nell’arco di pochi minuti. Poi di nuovo nella Hall a pretendere un esame ancora più accurato, dato che i passaporti non possono che essere nell’hotel, giacché ritirati alla reception la notte, prima di coricarsi. Poi, finalmente, Pietro li rinviene nella sua borsa; se ne era provvisoriamente appropriato, sbadatamente, proprio sulle poltrone del salotto, la sera precedente. Mi limito a chiedervi di comprendere il sollievo di tutti.
L’intera mattinata è dedicata alla visita del Palazzo dei Venti e del City Palace.
Il Palazzo dei Venti, ovvero l’Hawa Mahal, è composto da una facciata di cinque piani, dove si affacciano oltre 900 finestre dalle quali le donne, rinchiuse nella corte del maharaja, potevano osservare, senza essere viste, il quotidiano trascorrere della vita sulla strada. E’ un palazzo sinceramente singolare, con le sue grate trasparenti, spettacolare ma soprattutto unico. Un affascinante saliscendi fra scale, scalette, terrazze e cortili. Tutto, peraltro, ben tenuto e mantenuto. E poi il refrigerio, dovuto alla costante brezza che emana il Palazzo, anch’esso ovviamente colorato di un luminoso rosa intenso.
Successivamente è la volta dell’atteso City Palace, un palazzo ancora oggi privato, di proprietà dell’attuale maharaja, che in parte lo abita con la propria famiglia. Un complesso di edifici in gran parte decorati, che custodiscono interessanti collezioni di vario genere (arte, preziosi, antichi tessuti, manoscritti, armi), insieme ad alcuni pregiatissimi laboratori artigiani dove anche qui si lavorano pietre, artigianato artistico, ecc. ecc. Ancora una volta si ha la conferma del notevole potere che il maharaja ha detenuto fino al 1947, anno dell’indipendenza.
Ma insieme alla curiosità di visitare questo vecchio Palazzo, c’è quella della presenza, proprio di fronte all’ingresso, di una moltitudine di donne e bambini che sembra voglia sostenere una qualche protesta. Di quando in quando la polizia interviene per farla indietreggiare, poi di nuovo il pressing; un pressing però ordinato e paziente. Come sempre, tutto ciò che accade in India è improntato alla pazienza. Come la stessa vita è vissuta con pazienza, anzi come un inciampo che merita vivere esclusivamente in attesa della reincarnazione. Si cerca di capire il motivo del loro accampamento e si scopre che sono lì perché intenderebbero incontrare un non meglio precisato “Santone”, quel giorno però assente dal Palazzo perché a Pushkar, una delle città sacre per gli indù. Si tratta, come detto, di donne tanto pazienti quanto risolute che, quando ancora pensavo avessero intenzione di inscenare proteste, le avevo sollecitate ad invadere il Palazzo senza chiedere troppe autorizzazioni. Avevano risposto con un sorriso ai miei gesti, mantenendo la loro stoica, invidiabile calma e serenità.
La visita al Palazzo è dunque conclusa, Pietro ed Enrico decidono di visitare l’Osservatorio Astronomico, altri si dedicano a qualche compera e io, che mi interesso del prezzo di un bellissimo tappeto antico, ricevo come risposta che non sarei mai stato in condizione di acquistarlo perché troppo caro. Un’offesa vera e propria che non ho mai capito da che cosa generata, anche se effettivamente non avrei mai investito 500 dollari in quel tappeto, per quanto forse lo meritasse.
Poi si riparte, non appena fatto rifornimento di acqua ( se ne consumano quantità enormi ), banane ed altra frutta, pomodori da mangiare col tonno, saggiamente portato da casa in ampia scorta. Si parte verso la regione Shekhavati (Sikar, Nawalgarh, Mandawa), una regione non troppo propagandata, ma decisamente originale. E’ la regione dei cosiddetti “haveli”, ovvero di case e palazzi ( le dimore dei Rajput ) splendidamente affrescati dagli ottimi artigiani del tempo, veri professionisti. E’ anche una regione strategica, in quanto zona di transito delle carovane che in passato da Delhi e Jaipur si dirigevano verso l’Ovest. Una regione abitata da commercianti scaltri che in breve tempo riuscirono ad accumulare ingenti ricchezze.
Nel mezzo al pomeriggio, deviando la rotta principale dopo Sikar, si giunge verso le cinque a Nawalgarh, che non dispone di troppe soluzioni per il pernottamento, anche perché l’intera zona è ancora sostanzialmente sconosciuta al turismo. Si sceglie quella che sembra migliore e tale si confermerà anche nei fatti: un’accogliente haveli, dove si riesce a trattare buone condizioni, sia per l’alloggio che per la cena e la colazione del mattino successivo.
Merita dire a questo punto che per una camera doppia ( bagno e aria condizionata compresa ) si è speso da un minimo di 400 rupie (20.000 lire) a un massimo di 1.500 (75.000), ma in media siamo stati sulle 800 e le più care si sono riscontrate nella zona di Bombay.
A cena si ha l’occasione di conoscere il proprietario ( almeno come tale si presenta ), con il quale si tiene una piacevolissima conversazione, in parte in francese, lingua da lui conosciuta per aver sposato una parigina che, da quanto si riesce a capire, vive quasi esclusivamente a Parigi. La conversazione si sposta poi su una magnifica terrazza, ben areata e degna di un bella vista. Qui il nostro amico, ormai un po’ alticcio, che noi soprannomineremo Conte Corsini, si scopre anche artista e ci annuncia perfino l’intenzione di affrescare alcune camere, portandoci a visitare quella, la mia, dove ha iniziato i primi scarabocchi.
Ci voleva proprio una soluzione così accogliente e rilassante, specialmente dopo una giornata tanto dura. Sì, fra le più dure, perché prima della cena, ci si dedica anche alla visita di una parte della città, privilegiando gli haveli, il cui splendore supera ogni qualsiasi nostra aspettativa. La visita al museo, aperto fuori orario appositamente per noi, completa il quadro, offrendoci chiaramente uno spaccato della ricchezza di queste immagini e della vivacità di queste rappresentazioni, prevalentemente improntate a temi mitologici.
Venerdì 3
Al mattino si incontra il Conte Corsini a stropicciare alcune statue del cortile. Si saluta con lo scambio degli indirizzi; poi, alla nostra partenza, un simpaticissimo complessino, in tipico costume locale, parte delle quaranta unità di personale addette alla gestione della villa ( in Italia ne sarebbero sufficienti non più di una quindicina ), ci saluta con musiche, canti, e soprattutto con tanta simpatia. Si decide di dedicare ancora qualche ora alla visita di Nawalgarh, ai suoi haveli, ma anche a quel suo susseguirsi di baracche e negozietti dove si vende di tutto un po’. Queste sono scene che si ripeteranno per tutto il viaggio, ma qui siamo ancora all’inizio.
Dopo Nawalgarh si visita un’altra perla: Mandawa. Ed ancora splendide case, ville e palazzi finemente decorati, non sempre però purtroppo in buone condizioni. Alcuni sono trasformati in alberghi o altro, la maggior parte però sono addirittura abbandonati e dunque destinati al definitivo deterioramento. Peccato! I nostri commenti ci portano a convincerci che sarebbe necessario l’intervento dell’UNESCO a dichiarare il tutto “Patrimonio universale dell’umanità”. Il viaggio riprende per Bikaner, dove si arriva alle cinque. La temperatura raggiunge i 40 gradi. L’impressione che si ha subito della Fortezza è quella di un grande monumento, anzi, di una vera e propria città circondata da una muraglia di quasi 10 chilometri. La visita è rinviata al mattino successivo, adesso tocca alla città vecchia, una realtà ancora così tanto testimone di grandezza e grandiosità, quanto dell’inarrestabile processo di sicura decadenza. Un insieme di case, castelli, palazzi, che ci richiamano le glorie del passato. Bikaner, la capitale del deserto, ha avuto importanza secolare, anche se oggi è praticamente tagliata fuori dalle aree di maggiore sviluppo.
La città vecchia è scarsamente abitata e soltanto in qualche raro caso si riscontrano tracce di un certo intervento di restauro conservativo. Si sapeva della presenza di un tipico mercato locale, ma quando ci si immerge all’interno, la realtà supera ogni possibile umana immaginazione. Le strade sono vicoli stretti, un intreccio indistinguibile e una massa caotica di gente che vi si accalca. Ormai, parte integrante di quella bolgia, ci si fa volentieri coinvolgere dai loro fatti, dai loro accadimenti, fino a partecipare attivamente ad una sorta di “blocco stradale“, causato dall’incrocio di un carro trainato da una mucca e uno da un cammello. Il traffico si blocca, compreso quello pedonale e questa marea di gente resta in attesa (come sempre paziente) che succeda qualcosa, che sia deciso chi dei due, fra il cammello e la mucca, debba indietreggiare… ammesso sia possibile.
Le nostre disavventure non finiscono qui. Nella scelta del ristorante per la cena si incontrano difficoltà; quelli segnalati non ci convincono, tranne provare la cucina di un noto albergo che si trova proprio nella parte vecchia. Per raggiungerlo si prenotano due took-took, ma mentre uno, con a bordo Pietro, Enrico ed il sottoscritto, arriva a destinazione nel giro di un quarto d’ora, l’altro si smarrisce e soltanto con l’aiuto degli autisti del nostro pulmino, rintracciati presso l’hotel, riescono a raggiungerci dopo circa un’ora e mezzo. Il ristorante effettivamente merita. La sala da pranzo, tutta per noi, è decorosamente restaurata, un po’ calda per l’assenza dell’aria condizionata. Il menù è strettamente vegetariano e quindi, in quanto strettamente, neppure la birra è consentita.
La cucina vegetariana ci aveva, all’inizio, interessato positivamente, ma col passare del tempo si rende sempre meno sopportabile. Soprattutto per quell’insieme di spezie, in gran parte ignote, sia alla nostra conoscenza che al nostro palato. Nella maggior parte di questi casi si è potuto rimediare con le diverse qualità di pane, davvero squisito, infarcito di formaggio, aglio, cipolla ed altro.
Sabato 4
Il nostro hotel, questa volta, è un po’ decentrato, anche se non di molto. Per fortuna è sulla via di Deshnok, un villaggio a 33 chilometri da Bikaner, famoso per un tempio particolare e unico nel mondo, come annuncia un enorme cartello, arrivando. E’ il Tempio di Karni Mata, popolato, incredibile ma vero, da migliaia e migliaia di topi, ritenuti le incarnazioni di antichi poeti.
La curiosità, come si può comprendere, è forte. E così, al mattino presto, io, Gianni e Pietro ci mettiamo in cammino. L’esperienza è unica e particolare. L’edificio è bellissimo, un tempio Moghul di marmo color bianco, rispettato come un qualsiasi altro tempio e venerato da non pochi “fedeli”. Naturalmente vige anche in questo caso l’obbligo di metterci a piedi nudi prima di accedere e quando varchiamo l’ingresso si presentano scene difficili a rendere credibili. Intanto, ovviamente, i topi che scorrazzano qua e là, poi alcune donne che li accudiscono, versando loro latte abbondante in ampi vassoi, poi ancora le scene di devozione di fronte a un braciere, dove non si capisce bene cosa si incensi. Un tempio vero e proprio, anzi molto più vivo e animato di altri, dove i presenti partecipano intensamente a tutti i diversi momenti della vita templare. Incredibile, appunto, ma anche incredibilmente vero.
Alle dieci siamo di ritorno e dopo aver liquidato il conto si parte per la visita del Forte Junagarh. Un insieme di sale e saloni. Una città, come già si è detto. Vi si dedicano oltre due ore, ma ne sarebbero necessarie molte di più. Si tratta dell’unica fortezza mai espugnata. Insieme a sale e saloni anche templi e padiglioni vari; una parte è destinata a museo delle armi. Dall’alto dei corridoi che collegano le diverse parti del labirinto, si godono scorci e paesaggi, insieme al refrigerio dovuto al muoversi, anche se lentamente, di una piacevole brezza. Come sempre, durante le ore più calde si viaggia, approfittando del clima fresco del nostro minibus. La prossima meta è posta a ben 340 chilometri. Per fortuna però si incontra una buona strada, pochissimo trafficata, molto lineare e naturalmente pianeggiante, dato che si sta attraversando il Deserto del Thar. Un deserto “sui generis”, dove non mancano piante e addirittura alcune zone sono completamente verdi. Bisognerebbe essere esperti per comprendere meglio le caratteristiche di questo territorio assolato e stepposo. Il caldo è vero caldo umido, contrariamente alle nostre previsioni, in quanto incontrando il deserto si immaginava clima caldissimo, ma secco. Il tempo necessario per l’attraversata è più breve del previsto, proprio perché nel deserto anche le strade sono praticamente deserte. Con l’eccezione di frequenti greggi di pecore e mucche, condotte a pascolare in questo particolare deserto. Greggi anche di mucche, che naturalmente sono allevate esclusivamente per l’uso del latte. Alle sei, con una media di quasi settanta all’ora, eccoci arrivati a Jaisalmer, avamposto indiano nel deserto, sul confine col Pakistan, una ex città militare (e si vede), ancor oggi però con un suo preciso ruolo, strategico sotto il profilo militare e della difesa.
La presenza di turismo in questa zona è scarsa, ma in forte e meritato incremento se è vero, come è vero, che dal 1994 ad oggi è addirittura raddoppiato. Jaisalmer, con la sua fortezza, si staglia possente in mezzo al deserto. L’accesso si presenta subito complicato: è vietato l’accesso al nostro pulmino. Si prenota speditamente un modesto alberghetto e ci si dirige subito verso il cosiddetto belvedere, la collina dei cenotafi reali, che sorgono nell’oasi di Bada Bagh, ad un Km dalla città, da dove si gode un tramonto dal fascino ineguagliabile. Naturalmente questo è anche il luogo dove a quest’ora si concentrano stuoli di potenziali guide, accompagnatori, venditori di tutto un pò, cantori, suonatori di strumenti simili ad arcaici violini. Insomma, un impatto particolarmente gradevole, con un filo anche di romanticismo che si accentua quando, dopo il tramonto, la luce del sole è sostituita da un riuscitissimo sistema di illuminazione che si irradia, dal basso, verso le mura della maestosa fortezza. Poi giunge il momento per l’occasione dell’unico ristoro quotidiano. Stasera si punta decisamente su un ristorante con vista sulle mura. Il paesaggio lo merita davvero. Monica è un ristorante con terrazza; è il nostro, fa per noi. Si sale una scala, si transita dalla zona cucina che tralasciamo di descrivere e si accede ad un’ampia terrazza. Il calore (il calore in tutti i sensi) è eccezionale e quello dell’accoglienza raggiunge il massimo. Non deve capitare spesso si dover servire sette pellegrini affamati, preoccupati soltanto di un buon menù e di un’ottima birra indiana. Si mangia bene, si provano piatti locali, ma non si resiste neanche ad una buona pizza, circostanza in realtà abbastanza rara. Anche il conto è accettabilissimo, si spendono 50.000 lire in tutti. Soddisfatti per quanto finora ci ha offerto questa raccomandata città, anche se difficile da raggiungere per la lontananza, si rientra abbastanza presto, intorno alle dieci, con l’idea precisa di alzarsi di buon’ora, per una visita della città in ore più consone.
Domenica 5
Alle otto del mattino io, Gianni, Sandra e Stefania si consuma la solita colazione di sempre sulla terrazza – belvedere dell’albergo. Il panorama offerto è semplicemente spettacolare. La fortezza è lì a portata di mano che sembra voglia farsi toccare. Da lassù si domina l’intero contesto che mette insieme, in una delicata cornice, paesaggio desertico e centro storico. Da lassù si ha la conferma di quanto le informazioni ci dicono a proposito delle tante altre terrazze private trasformate in luoghi deputatissimi a trascorrere notti sicuramente più gradevoli e meno soffocanti. C’è fretta e voglia di immergersi immediatamente nell’intricato dedalo di vicoli e vicoletti intrecciati, senza auto, dove ogni tempio, ogni palazzo, ogni edificio (che sembrano costruiti in filigrana), sono una vera e propria opera d’arte architettonica. Se ne visitano diversi, anche se l’aspetto più convincente e coinvolgente è proprio il vivere dall’interno, profondamente integrati e stregati, la vita della Fortezza. Attraversandola, conversando, contrattando stoffe, tappeti ed antiquariato che ormai ha già preso campo anche qui nel deserto. Si conclude anche qualche “affare”, insieme alla visita del palazzo più significativo, lo Juna Mahal, uno dei più antichi dell’intero Rajasthan ed anche uno dei meglio conservati. L’ingresso al palazzo è piacevolmente allietato dalle musiche e dai canti di un simpaticissimo complesso, composto da bambini di età fra i cinque ed i sei anni, in tipico costume locale, che intonano fra l’altro una perfetta “San Martino campanaro“.
Intorno alle dodici, col sole che picchia intenso, malgrado stamani sia un po’ nascosto, ci si rimette in viaggio per Jodhpur. Appena fuori Jaisalmer, si cambia paesaggio, allontanandoci dal deserto verso un altopiano che si fa sempre più verde e coltivato. Jodhpur è una grande città con una storia antica che tuttavia non mi ha particolarmente affascinato, ad eccezione dell’immancabile Forte. Si alloggia al Royal Palace che, a parte il nome, non presenta particolari specialità. La città è una delle più sviluppate sotto il profilo commerciale e si vede subito attraversandone una parte, verso la zona del mercato e della Torre dell’Orologio. Naturalmente anche qui non mancano acquisti e dopo quelli un po’ più usuali, si arriva al ben noto mercato delle spezie. Un Bazar composto da moltissimi negozi specializzati dove si possono riscontrare centinaia di diverse qualità di spezie. Uno di questi è particolarmente reclamizzato ed è lì che dopo gli acquisti selezionati dalle nostre compagne, il proprietario mi invita ad accettare una specie di “tangente“ (tre sacchetti aggiuntivi in omaggio) per avere condotto il gruppo presso il suo negozio. Anche qui, come quasi in qualsiasi altra circostanza, si è accerchiati da procacciatori di affari che vorrebbero spingerci verso un negozio anziché un altro, che insistono perché si scelga il ristorante da loro consigliato. Ed a proposito di ristorante, questa sera non si ha troppa fortuna, sia perché quello scelto risulta lontanissimo, sia perché si tratta di un banale ristorante turistico, affollatissimo, pieno di italiani e con piatti di scarsa qualità. Eppure, passa per uno dei migliori .
Lunedì 6
La mattina è quasi interamente dedicata alla visita del Meherangarh Fort, conservato intatto dalla fondazione ad oggi. E’ arroccato su un bastione roccioso alto 120 metri ed è circondato da mura poderose. Sono sette le porte principali di accesso. All’ingresso di una di queste si trovano le impronte delle mani sulle pareti che ricordano le donne che si sono date la morte con il rito del “Sati”, ovvero il rogo delle vedove. L’impressione del Forte è davvero forte, soprattutto per l’impresa ardimentosa di costruire su questo bastione. All’interno si susseguono decine e decine di sale dove sono allestiti musei di vario genere (mobili, tappeti, costumi, armi, ecc.), sale collegate da terrazze e cortili che ci aprono lo sguardo sulla magnifica veduta della città, nota come città azzurra per il colore di parte delle sue case, quelle dei “Brahmani“, la casta più elevata. Si passa poi alla visita dell’Umaid Bhavan, un sontuoso palazzo, costruito dall’allora maharaja negli anni trenta-quaranta, che a prima vista appare come la sintesi fra un palazzo rinascimentale e la Basilica di S.Pietro. E’ assolutamente imponente, composto da quasi 400 sale, oggi in parte destinate a museo, in parte a residenza dei discendenti, in parte a lussuoso albergo.
Prima di abbandonare Jodhpur non può mancare la visita alla strada degli antiquari, la Umaid Bhavan Road, dove si possono apprezzare i loro tipici oggetti e dove si fanno anche alcuni acquisti.
La direzione successiva è verso il Monte Abu, che sulla carta sembra lì, a portata di mano e che in realtà raggiungiamo soltanto a tarda sera. Si sale fino a 1.300 metri, percorrendo un ultimo tratto di strada particolarmente tortuosa. Il paesaggio cambia ancora, si fa più intensamente verdeggiante, con un clima ancora più umido, ma anche più fresco e dove per la prima volta si incontra la vera pioggia, dopo l’acquazzone di Agra. Mentre non è la prima volta che ci si imbatte in gruppi numerosi di scimmie, anche se per la prima volta queste tentano una sorta di accerchiamento, specialmente dopo che i nostri autisti le hanno offerto alcune banane. Saltano sul pulmino e sarebbero pronte a penetrarvi se altrettanto prontamente non si chiudessero le porte. Non vorrei impressionare troppo chi legge, ma l’impressione di tutti noi ( ad eccezione forse di Enrico ) è che possano essere pericolose dato, appunto, la loro consistenza. Uno spettacolo, tuttavia, che ci sarebbe dispiaciuto non provare.
Le opportunità di alloggio si presentano scarse perché il monte è frequentatissimo dai turisti indiani, specialmente in questo periodo di calura estiva. Siamo costretti ad accontentarci di una soluzione alla meglio presso il “ Mount Regency “. E mentre si praticano le normali operazioni di accesso ci capita di assistere (almeno a me e a Gianni) ad una curiosità della quale ci sfugge il significato. Il proprietario avvia una specie di rito, camminando ripetutamente da una parte all’altra dell’ingresso esterno dell’albergo, secondo un percorso regolare ed un’andatura ordinata, quasi assentandosi dagli altri movimenti esterni. Sembra che la spiegazione sia quella dell’esercitare una sorta di rito di ringraziamento per il fatto che l’albergo, col nostro arrivo, si è ormai completato.
Si parte per un primo approccio con il villaggio, anche se con un po’ di disagio per le condizioni del tempo. Si visita il borgo e strada facendo ci si accomoda per una cenetta che di buono ha soltanto il fatto di essere consumata in un ambiente giovanile e sportivo. Poi si coglie l’occasione per una visita notturna al lago che, in verità, non promette granché. Ottimo è invece il clima, un clima ancor più apprezzato da chi, come noi, proviene dal deserto. Peccato che non ci sia stata risparmiata un po’ di pioggia, anche se non particolarmente fastidiosa.
Martedì 7
La storia della prima colazione sarebbe tutta da raccontare. Mi limito a riferire della lunga sequela di fraintesi e fraintendimenti, con un che di kafkiano, che si conclude non prima di un’ora con il risultato che soltanto alcuni riescono a consumare la colazione richiesta, altri soltanto quanto casualmente capitato. Per fortuna non siamo ossessionati da troppa fretta, in quanto i templi di Dilwara, ci dicono, aprono alle nove. Si parte in tempo utile, ma quando dopo cinque o sei chilometri si arriva si scopre che in realtà l’orario di apertura è: 12.00-17.00. Un’amara sorpresa che avrebbe scompaginato tutti i nostri programmi. Eppure i cancelli sono regolarmente aperti, così come sono presidiati gli ingressi e garantito il servizio di custodia delle scarpe. Mi faccio un po’ di coraggio e chiedo di essere ricevuto dal responsabile, di fronte al quale mi piego a mani giunte, spiegando la nostra delusione ed un po’ anche la nostra rabbia per il fatto che altre erano state le indicazioni sull’apertura. E siccome tutto il mondo è paese, dopo aver in principio un po’ tergiversato, mi fa intendere che si tratta di un’eccezione, mi fa registrare la delegazione su un quaderno (vi aggiungo una coppia di italiani che era incorsa nel nostro stesso disguido), quindi si propone come guida di accompagnamento. E’ così che visitiamo questi straordinari modelli di arte giainista, un complesso di quattro templi di marmo bianco, immerso in un bel giardino di vecchi manghi. Il più antico è il Vimala Shah, dal nome del suo fondatore. Esso risale al 1061 ed è costituito da una vera e propria trina di marmi, finemente lavorati da oltre 500 maestri artigiani del tempo, secondo la tecnica del raschiamento. Meravigliosa è la cupola ottagonale, sostenuta da otto colonne. La volta del soffitto poggia su danzatrici e dee dalle forme sinuose. Dalla sala si accede ad un grande cortile, incorniciato da nicchie che ospitano le statue di marmo dei Tirthankara. I templi di Dilwara sono un esempio alto della qualità artistica e decorativa che caratterizza in particolare il modello dell’architettura giainista.
Come avete capito, si cerca di viaggiare (data l’aria condizionata)fra mezzogiorno e le cinque del pomeriggio. Questa volta si parte per Udaipur. I nostri autisti decidono di utilizzare strade secondarie che dovrebbero accorciare il percorso. E’ l’occasione per incontrare ed attraversare piccoli borghi, villaggi di campagna, strade allagate e fangose insieme. Ma è anche l’occasione per incontrare tradizioni e costumi diversi. La nostra attenzione è colpita in particolare dai costumi che indossano le donne, ancora più colorati ed accesi del solito ed infarciti di curiosi lustrini che riscontreremo soltanto in altre pochissime occasioni. Sono donne belle le donne indiane, donne sottili, con una propria eleganza e portamento fiero, anche quando portano e trasportano pesanti pesi sulla propria testa. Eleganti, avvolte nel loro “sari“, con le loro cavigliere ed orecchini, con l’immancabile goccia rossa stampata in fronte. Un viaggio molto faticoso, per lunghi tratti in compagnia di una fitta pioggia battente. Ad Udaipur, una città che passa per la “ Venezia d’Oriente “, si preferirebbe un albergo con vista sul lago, ma gli alberghi con questa opportunità si dividono fra i troppo costosi e gli inaccessibili con il nostro mezzo, data la tortuosità dei diversi vicoli di accesso. Si sceglie, infine, il “Savshanti Holiday Resort “. Non si presenta particolarmente accogliente, ma dispone di un bel giardino, un discreto servizio ed è molto animato soprattutto per merito di un simpatico e cordiale direttore, un po’ tuttofare. Udaipur è la nostra meta conclusiva del Rajasthan, prima di prendere la direzione del sud, verso Bombay. E’ dunque anche la tappa dov’è programmata una sosta un po’ più lunga per goderci un minimo di relax. Udaipur è la città ideale, con la sua piacevole atmosfera che fa dimenticare la durezza del deserto rajasthano.
Mercoledì 8
La colazione è apparecchiata in giardino. Mentre si consuma si controlla il cielo che promette abbastanza bene, malgrado qualche passata di pioggia. L’impatto mattutino con la città è assolutamente piacevole. Ci aiuta il clima ritemprante e rilassante che fanno di Udaipur una città molto ricercata da parte di un turismo, qui molto più presente che altrove, che a me pare più integrato, più partecipe ed anche più giovanile ed alternativo.
Il nostro primo accesso è al City Palace, situato sulla riva orientale del lago Pichola. Si estende per oltre cinquecento metri lungo la costa, è uno dei palazzi più caratteristici e meglio conservati di tutto il Rajasthan. L’accesso al Palazzo è obbligatorio anche per partecipare ad una distensiva gita in battello. Un’attraversata del lago che ci riserva scorci incantevoli, oltre al dominare quanto di maestoso ci offre il Palazzo. L’atmosfera del lago conserva qualcosa di magico, anche per merito sia del suggestivo “Lake Palace Hotel”, uno dei più prestigiosi dell’India, sia del Palazzo e giardino di Jag Mandir, che sorge su un piccolo isolotto. La visita interna al City Palace è interessante per quanto riguarda il pregio delle raccolte museali, addirittura insuperabile per i preziosissimi scorci, sia sul lago, sia sul centro cittadino che sui monti Aravalli. Insomma, un complesso che ci colpisce, insieme ai suoi esterni, fatti di grandi alberghi, cortili e giardini. Il pomeriggio è libero. Ognuno coltiva i propri interessi più specifici: negozi, lungolago, pranzo, semplice ozio, ecc. ecc. Si coglie anche qui l’occasione per qualche acquisto, si frequenta un caffè, ci si informa sui costi per i nostri prossimi spostamenti ed all’ora di cena si riesce a salire le scale del Jagat Niwas Palace, dove sulla sua panoramicissima terrazza ci si abbandona ad una cena tutta da ricordare, soprattutto per l’atmosfera dell’ambiente.
Giovedì 9
Il tempo stamani promette bene e così davvero sarà. L’orario di partenza è rispettato, dopo aver salutato calorosamente il simpatico (e furbo) “boss” dell’hotel, il nostro tuttofare.
La direzione è Alhambadad, con la speranza di ripartire immediatamente, alla volta di Daman, con un nuovo mezzo giacché, abbandonato oramai il Rajasthan ed entrati nella Regione del Gujarat, è preferibile affittare mezzi di trasporto nella Regione interessata, anche per evitare il pagamento di troppe tasse.
Il viaggio, che ci impegna per oltre cinque ore, scorre un po’ stancamente. Il paesaggio non presenta granché di particolarmente degno di essere menzionato. E sopratutto c’è la voglia di prendersi un po’ di riposo, magari appunto in una località marina. Appena arrivati, sotto il sole cocente, ci mettiamo alla ricerca di un’agenzia specializzata nell’affitto di minibus. Purtroppo, però, dopo ben due ore di vari e vani tentativi (compreso quello dello scortese comportamento di un agente che in un primo momento sembra disposto a garantirci un mezzo, impegno che poi non intenderà onorare perché ci si era permessi di verificare anche altre offerte), si prende atto dell’unica prospettiva possibile: quella di pernottare ad Alhambadad, visto che ormai non avremmo potuto più raggiungere Daman in serata.
Anche la ricerca di un albergo non sarà impresa semplicissima: siamo in una città industriale, con alberghi prenotati pressoché permanentemente, non c’è turismo e pertanto le opportunità sono scarsissime. Alla fine, vinti anche da questo stato di cose, si accetta la peggiore soluzione di tutto il viaggio: si dorme all’Hotel Apex. Posto al sesto piano di uno squallido edificio, raggiungibile con un ascensore di quando in quando, ma molto spesso in tilt, gestito malamente e tutt’altro che a prezzi economici. Da qui ci si preoccupa di prenotare un mezzo per l’indomani mattina. Dopo un estenuante trattativa, condotta con un miserevole personaggio, fra l’equivoco, il disgustoso e lo sgradevole, si conferma la partenza per le ore sette del mattino successivo. E’ questo stesso personaggio che si offre di accompagnarci al prescelto ristorante di un ottimo Hotel cittadino. Si accetta, anche perché non vogliamo contrariarlo troppo, dato che a lui sono affidate le sorti della nostra partenza. Si parte, pressati in una sgangheratissima “ambassador“ dei tempi inglesi. Nessuno riuscirà a raccapezzarsi di come si fosse riusciti comunque ad arrivare. L’autista, il nostr’omo, è per di più claudicante. Quando si sale, ci si accomoda (si fa per dire) in tre nella parte anteriore (oltre l’autista), gli altri quattro nel sedile posteriore. Egli guida in modo lento, ma spericolato, districandosi incredibilmente in mezzo a un traffico indescrivibile. Si comprenderà la nostra condizione, il nostro stato e il nostro grado di comodità. Per di più le porte non chiudono bene e soprattutto Enrico è a rischio, anche se si tiene aggrappato a me. Malgrado tutto il nostro, con otto persone a bordo, in mezzo a quel traffico, con quell’auto di cui si è detto, riesce (incredibile, ma vero) addirittura a rispondere alle telefonate del proprio cellulare, non mancando naturalmente di controllare perfino il nome dell’interlocutore. Ma il bello sarà all’arrivo al Grand’ Hotel, dove il personale, vestito con pregiatissimi costumi tradizionali, si avvicina, apre la porta dell’ ”ambassador” e, appena scoperta la situazione, scoppia in una garbata, quanto risoluta, risata di commiserazione.
La commedia si svolge, però, a lieto fine. Siamo capitati in uno o forse nel migliore albergo della città e anche la qualità del ristorante è di tutto rispetto per non dire di più. Si può decidere se cenare alla carta o al buffet. Si opta per questa seconda soluzione e nessuno se ne pentirà. Si spazia da tipici piatti vegetariani, a piatti di carne e pesce. E soprattutto questa volta si possono scegliere, dopo averli ben attentamente controllati. Sì, anche l’occhio, come si dice, vuole la sua parte. E poi la pulizia, sia del locale che di tutto quanto riguarda l’allestimento della cena. E’ questa una delle poche occasioni in cui si provano diverse qualità di dolci, scegliendo fra un‘offerta molto abbondante. E’ vero che anche il prezzo è il più alto di tutto il viaggio, che comunque non supera le 20.000 lire a testa. Non soltanto il ristorante, ma anche tutto l’Hotel è accogliente, rilassante e straordinariamente pulito. Impressiona particolarmente la pulizia dei bagni, molto diversi da quelli che, appena arrivati in città, io e Gianni siamo costretti a sperimentare. Per fortuna, durante tutto il viaggio, non abbiamo avuto problemi di salute, salvo qualche normale esigenza di straordinaria defecazione, come quella a noi capitataci. Presi dall’urgenza di una sollecita soluzione, ci si infila in una “Banca Cooperativa “, dove ci accoglie un curioso portiere, dotato di un fucile dalle canne sproporzionatamente lunghe, tanto da raggiungere il soffitto. Ci accompagna gentilmente attraverso gli uffici, incuriosendo l’intero personale di servizio, ai loro bagni, che sarà meglio astenerci dal descrivere. Una giornata, dunque, molto movimentata, condita da qualche disguido, ma anche da curiose esperienze, capaci di compensare abbondantemente la sfortunata coincidenza di dover pernottare in una insignificante Alhambadad.
Venerdì 10
Alle sette e mezzo in punto, con appena un caffè sullo stomaco, si parte. Al via, si presenta il nostr’omo della sera precedente con in testa tre missioni ben precise: incassare le 6.000 rupie pattuite, minimizzare la necessità di coprire bene i bagagli posti sul tetto del minibus (questa volta il nostro mezzo non è capiente fino a ospitarli tutti all’interno) e infine pietire, inutilmente ma fino all’inverosimile, in un primo momento 200 rupie, poi 100 e sono certo che non si sarebbe minimamente offeso se gliene avessimo offerta anche soltanto una.
Daman sarà, come già detto, la nostra prossima tappa: sicuramente un po’ di riposo, forse un po’ di mare. Ma forse, perché il tempo minaccia pioggia e pioggia sarà e forte, dopo un’intera nottata di fulmini e temporali, che hanno fatto saltare la corrente elettrica e che hanno tenuto svegli i più, preoccupati del fatto che senza corrente non avrebbe funzionato l’ascensore, con tutte le conseguenze del caso, trovandoci al sesto piano, con una scala di esodo non rispondente certamente alle benché minime norme di sicurezza. Ma l’India è anche tutto questo, così come è questo il tempo dei monsoni e sarebbe come sprecare un’occasione preziosa se non ce li godessimo fino in fondo e come meritano.
Alle undici c’è la prima sosta, così decide il nostro giovane e temprato autista. Dopo tre ore siamo già a mezzo tragitto. Tutto è scorso speditamente, anche per l’abilità del conducente, che sa districarsi abilmente nel traffico già abbastanza intenso. Si immagina così di raggiungere Daman intorno alle tre del pomeriggio. Illusione!
C’è chi intanto consuma, per precauzione, qualcosa al bar, si acquistano acqua e biscotti. Ma la nostra attenzione è attratta (in verità non soltanto in questa occasione, ma questa volta merita soffermarci) da alcune cerimonie religiose, per noi naturalmente inspiegabili, ma da loro intensamente partecipate. Fra queste, quelle di alcuni giovanotti che, di fronte a un altare “consumano” le loro energie passando ore e ore, per esempio in questo caso, a soprammettere una foglia sopra a un’altra, con l’intenzione di costruire un castelletto, come atto di devozione non si capisce a chi. Naturalmente il castelletto, raggiunta una certa altezza, crolla e così si ricomincia daccapo, procedendo probabilmente all’infinito. Altri, invece, sono impegnati a costruire piccole forme di argilla che depositano su un piano, anch’esse come atto di devozione verso qualche sovrannaturale.
A mezzogiorno si riparte e prende avvio un’avventura che si concluderà soltanto alle nove anziché, come immaginato, alle tre. Intanto c’è da registrare l’intensificarsi del traffico, fatto di migliaia, anzi, di centinaia di migliaia di camion, che si dirige in ambedue le direzioni, per trasportare davvero di tutto. Poi, le condizioni del fondo stradale (la strada principale dell’India!) che per lunghissimi tratti è ridotta a essere completamente sterrata e per di più affogata in numerose buche profonde. Quindi, i continui incidenti e naturalmente le immancabili mucche.
Il traffico si blocca in continuazione, i camion si fermano, la fila si allunga, gli autisti serafici scendono dai loro mezzi e parlottano, parlottano, magari cogliendo l’occasione per un po’ di riposo, accucciati sui talloni, in una loro tipica posizione tutta indiana. Si aggiunga a tutto ciò la presenza di qualche specie di cantiere, composto da gruppi di operai che, a mano, con una piccola pala e una sorta di padella con la quale spostano il materiale di riempimento, tentano (naturalmente invano) di riempire qualche sprofondamento. In realtà, poveretti, aggravano ulteriormente la situazione, intralciando inutilmente il traffico.
Ma vi immaginate una strada ridotta come prima descritta che si possa tentare di risanare a mano? Ci vorrebbero i cantieri che in questo momento stanno traforando il nostro Appennino per l’alta velocità, per poter tentare di porvi un qualche rimedio. E’ automatico commentare che forse anche qui ha preso campo l’idea dei cantieri socialmente utili, anche se è difficile immaginare utili a che cosa. C’è poco da fare, ci vuole pazienza, anche perché anche questa è India, anzi, è un aspetto tipico dell’India. Non resta che prendere coscienza che il meglio di quanto si possa sperare è di raggiungere Daman in nottata. Quando siamo ormai a 60-70 km, il traffico viene deviato su strade secondarie. C’è un blocco che nessuno riesce (neppure il nostro autista) a capire bene perché. E’ previsto così di raddoppiare i km, ma la nostra fortuna questa volta sta nell’incontrare strade molto meglio mantenute e molto più libere, anche se il traffico è interrotto almeno tre o quattro volte a causa di incidenti, fortunatamente abbastanza lievi.
Un’altra fortuna sta nell’attraversare un paesaggio straordinariamente verde e molto fresco, con colture che non si sono incontrate finora: specialmente risaie. Una campagna che si presenta molto ben coltivata e curata, anche per la presenza di numerose famiglie contadine. Insomma una zona in condizioni molto più accettabili rispetto a quelle disgraziate di altre. Almeno questa è l’impressione di tutti. E’ comunque facilmente intuibile come proprio in campagna le condizioni di vita siano positivamente incomparabili con quelle della folle concentrazione urbana, che ammassa esseri viventi in condizioni disumane e senza alcuna prospettiva.
Naturalmente il tempo da ingannare non manca ed è così che, fra qualche lettura e qualche sonnellino, se ne ricava anche per scommettere su un programma ragionevole per risollevare le sorti complicate di quest’India, ovviamente utilizzando nostri precisi punti di vista. Bisognerebbe, anzitutto, non superare i 300 milioni di abitanti, rispetto agli oltre 1.000 (si tenta di indicare anche modalità che vadano oltre l’uso del preservativo, che comunque dovrà essere reso obbligatorio, così come obbligatoriamente non si dovrà concepire più di un figlio e ancor meglio nessuno); si dovrà assolutamente impedire ogni manifestazione religiosa che contempli la devozione verso i topi; si dovrà per legge imporre l’obbligo di lavarsi almeno una volta alla settimana (all’inizio è consigliabile non esagerare!); si dovrà imporre l’obbligo di mangiare mucche, maiali, cinghiali, dato che il sacrificio di mangiare bistecche, prosciutti e salami dovrebbe risultare sopportabile; si dovrà consentire al “Cecchini” di Panzano di sbizzarrirsi come meglio crede, purché inauguri decine di macellerie; il vino dovrà diventare la bevanda più comunemente usata, pur senza rischiare l’esagerazione, specialmente in una prima fase; lavorare, anche se stanca, potrebbe far bene e dunque ognuno dovrebbe farci un pensierino, se non altro per motivi di salute.
Questo ed altro si concentra nel nostro programma, anche se alla fine ci assale un forte dubbio. Direte: quello che il popolo indiano non accetterebbe. No, ci assale un dubbio più atroce, ovvero che con questo programma, benché di minima, avremmo decretato la vera e propria scomparsa dell’India. E ciò, francamente, non sarebbe giusto.
Alle nove, sotto la pioggia che ci ha accompagnato per l’intero viaggio, si arriva a Daman. Nell’Hotel prescelto non c’è posto, ma c’è lì vicino, al “Princess Park”, che dà direttamente sul mare, comprese le finestre delle nostre camere. Su un mare, però, non esattamente caraibico, caratterizzato dall’alta e bassa marea, da acque molto mosse e di colore fra il rosso e il grigio.
Alle dieci siamo finalmente a tavola. Che fame! Questa volta è davvero giustificata, senza colazione e soltanto con qualche biscotto e qualche banana consumata durante il lungo viaggio. Si va a dormire con la speranza che la notte serva non soltanto a rinfrancarci fisicamente, ma anche a far sbollire la furia monsonica.
Sabato 11
Trascorriamo l’intera giornata a Daman. Non però sulla spiaggia al sole, sia perché ce lo impedisce il monsone, sia per la non troppo invitante qualità della spiaggia medesima.
Daman è stata una colonia portoghese che si è resa indipendente soltanto dal 1961. La città si divide in due parti. Una molto ordinata e razionale, con le sue strade squadrate, i suoi giardini curati; insomma la zona destinata a servizi, dove ha sede la biblioteca, la chiesa cattolica, la fortezza, il museo ed è abitata da pochissimi cittadini. L’altra è invece sovraffollata, caratterizzata da tutto ciò che normalmente si riscontra in analoghe città indiane.
Appena le condizioni del tempo lo consentono, io e Sandra ci si sposta in città. Daman è conosciuta anche come una realtà con qualche pretesa turistica, specialmente per il suo mare, che i locali apprezzano senza troppo sofisticare come, invece, facciamo noi turisti stranieri. E’ però anche una realtà di un certo interesse commerciale, con il suo porto, le sue attività legate alla pesca, il commercio degli alcolici che qui beneficiano di una sorta di porto franco.
In giro per la città ci capita di essere invitati da un signore, di lontane origini portoghesi, a visitare la propria abitazione. E’ un vero e proprio palazzo, che quasi quasi stona con le pregevoli e tipiche costruzioni in stile coloniale. Con orgoglio, ci racconta di essere riuscito a tanto grazie alla sua capacità imprenditoriale: è un produttore di vernici.
A metà pomeriggio ci si ricongiunge con il resto del gruppo, che ha preferito restare sulla spiaggia, a godersi anche quel po’ di sole che, nel frattempo, si è fatto largo nel cielo ancora incerto. Poi la cena in un ristorante vicino, il Resort, che ci riserva un’accoglienza amichevole e un clima particolarmente simpatico, animato da giovani camerieri molto attenti e volenterosi. I camerieri, salvo rarissime eccezioni, si prestano sempre fino all’inverosimile. Non sempre riusciamo a farci intendere, ma spesso la confusione e i fraintesi sono generati dal numero esagerato di camerieri a disposizione. Credo si possa dire che, sia negli alberghi come nei ristoranti, venga occupata almeno il triplo della mano d’opera effettivamente necessaria.
A Daman si trascorre una giornata tranquilla, che ci consente fra l’altro di riordinare un po’ il tutto: il programma ancora residuo, le valigie, il cambio dei dollari, la spedizione delle cartoline, le telefonate in Italia. Pietro, telefonando alla mamma, apprende che la nostra T.V. ha diffuso la notizia che, proprio in quei giorni, le piogge monsoniche hanno letteralmente distrutto e spazzato via interi villaggi, non troppo distanti da dove ci troviamo noi.
Domenica 12
La pioggia monsonica riserva un certo fascino, ma il suo perdurare non sempre favorisce il buonumore. Al nostro risveglio siamo per questo presi da una certa insofferenza. Per fortuna viaggiare in gruppo aiuta, specialmente se il gruppo è come il nostro. Siamo raccolti intorno al tavolo della colazione, quando arriva Pietro a raccontarci di aver sognato di essere stato incaricato di organizzare la rete delle agenzie Aereoflot in Toscana. Approssimandosi la scadenza della sua esperienza di Sindaco, il Partito gli ha affidato questo nuovo incarico. Compito non semplice, tuttavia stimolante; poco vantaggioso sul piano economico, ma molto allettante per il fatto che Pietro può disporre di un numero pressoché illimitato di passaggi gratuiti, anche se non si ricorda esattamente se pure gli amici possano usufruirne. Pietro ci racconta anche delle molteplici riunioni sparse nelle tante case del popolo dove, cambiati i tempi, anche la promozione dei programmi Aereoflot non si presenta del tutto scontata. Evviva i sogni di Pietro, evviva l’Aereoflot, evviva la speranza che anche le condizioni del tempo possano migliorare. Ed anche questa volta sarà così.
Alle dodici siamo alla periferia di Bombay, una lunga periferia che ci accompagna per 30 – 40 km.
Una periferia ben distinta in due parti: una prima, composta da un agglomerato informe di abitazioni-alveare, che caratterizza anche questa metropoli di 19 milioni di abitanti; una seconda, quella sud verso il centro, che si presenta tutto sommato abbastanza ordinata, scorrevole, con i suoi quartieri ben identificati, che risalgono alla fine ottocento – inizio novecento. Noi abbiamo scelto di dirigerci verso “Marina Drive”, uno dei quartieri migliori fra quelli inglesi.
Appena ci si affaccia sull’”Arabican sea“, si spazia immediatamente sull’orizzonte del grande golfo (la Corona della Regina) che offre, istantaneamente, il suo fascino spettacolare. Si arriva, percorrendo il lungomare e senza bisogno di ricerche affannose, all’albergo “Chatoaux“, situato vicino al mare, con un ottimo servizio interno e soprattutto, nella sua essenziale semplicità, eccezionalmente pulito.
Si capisce subito che Bombay è una città atipica: indiana, ma anche molto inglese. Basti pensare alla presenza di significative strutture che risalgono a quel dominio: rammento per tutte l’imponente stazione Victoria. Una città che rappresenta la capitale economico – finanziaria dell’India. Una città “inglese“, ma abitata da indiani. Una città che incuriosisce anche proprio per la compresenza di contraddizioni enormi: una città che per ¾ si presenta come capitale dei servizi più significativi, con uno sviluppo anche tecnologico d’avanguardia, dove si dice vivano più miliardari che in tutta l’Italia, mentre per ¼ si presenta, viceversa, come una vera e propria baraccopoli, dove sono accumulati gran parte dei suoi 19 milioni di abitanti. Una città che si è sviluppata su un lungomare che potrebbe (ma insisto sul potrebbe) reggere il confronto con Singapore o Rio de Janeiro.
Oggi è domenica, dunque cos’altro di più accattivante che confonderci con le migliaia e migliaia di locali che proprio la domenica pomeriggio sono soliti raccogliersi in “Chowpatty Beach“? Un pezzo di spiaggia affollatissima, ma con pochi bagnanti; luogo soprattutto di ritrovo, dove raramente capitano visitatori stranieri. Un’avventura tutta da raccontare! A partire dalla curiosità che la nostra presenza genera in tutti loro. Lì si raccolgono, quasi fosse un rito, sia per socializzare che per godersi la temperatura più areata. Si concentrano qui giocolieri, massaggiatori, mendicanti, venditori di tutto un po’, compresi gli immancabili “chai-chai“, ovvero i venditori di tè.
Fra le tante presenze c’è quella, appunto, di qualche massaggiatore. La prima a sperimentare è Cristina, fatto che incuriosisce i tanti presenti, raccolti in cerchio, con noi al centro. Un cerchio che si infittisce sempre di più, fino a raccogliere 4-500 persone, man mano che si passa a Stefania, a Pietro e a me. Sembra proprio che non possano contare su spettacoli migliori per ingannare il proprio pomeriggio domenicale.
Qui il clima è ovviamente meno appiccicoso; anche se umido, è comunque ventilato e dunque diventa ancor più piacevole la nostra bella passeggiata, lungo la finissima spiaggia, che da “Chowpatty Beach“ ci riconduce a “Marina Drive”.
Proprio di fronte all’albergo si trova “La pizzeria“, un ristorante dov’ è facile immaginare cosa si possa consumare. C’è voglia di interrompere il ciclo delle spezie locali e pertanto questa volta Enrico non ha da faticare per convincerci ad approfittarne. Piatti e pizza di gusto abbastanza nostrale, che non può non farci piacere. E quando ci portano il “bill”, si scopre che anche il prezzo si avvicina molto a quello nostrale.
Lunedì 13
Al mattino si fa colazione sul terrazzo, da dove si spazia su una discreta parte della città. Poi ci dividiamo: io, Pietro ed Enrico ci incamminiamo verso l’agenzia dell’Aereoflot per confermare il viaggio di ritorno, gli altri tentano di acquisire informazioni a proposito della prossima spedizione alle Grotte di Ellora. Si scopre così una nuova parte della città, quella del commercio e degli uffici. Una massa enorme di impiegati che a quell’ora, intorno alle nove, si dirige verso il proprio posto di lavoro. Una massa enorme, a piedi, ognuno con una borsetta in mano, tutti incamminati verso la stessa direzione. Sono così tanti da ingombrare interamente i grandi viali d’intorno; si ha proprio l’immagine visiva e concreta della moltitudine. Al nostro rientro, dopo circa un’ora, il viale è ancora interamente intasato e sono sempre diretti nella stessa direzione. Probabilmente qui la flessibilità dell’orario di ingresso è prassi consolidata, oppure è anarchia totale, dove non c’è bisogno di programmare orari particolari.
Un altro adempimento previsto è quello, come si è detto, della prenotazione del treno per la visita alle Grotte di Ellora. Dopo oltre un’ora si prende però atto che non c’è verso di prenotare. Tutto sembra occupato, anche se ci resta il sospetto che intercorra una qualche intesa fra gli addetti alle prenotazioni e i procacciatori di clienti per le agenzie di viaggio private, che stazionano permanentemente proprio di fronte allo sportello preposto. Non resta che decidere, pur con rammarico, di affittare un pulmino. Si passa,quindi, ad una visita accurata dei vari quartieri della città, partendo dalla stazione Victoria, nel quartiere del Fort. Lo stile dell’architettura è neogotico, con presenza anche di edifici più dichiaratamente coloniali. Dopo la stazione tocca all’Horniman Circle, poi alla St. Thomas Cathedral, dunque alla zona universitaria e all’imponente Istituto delle Scienze.
Nel contiguo quartiere Colaba si concentrano negozi e alberghi di lusso. Il più celebre di tutti i tempi è il Taj Mahal. Ma soprattutto, nel Colaba, si incontra il principale monumento cittadino: il Gateway of India, la porta eretta nel 1911 per la visita di Re Giorgio V. Il poderoso edificio si configura come un incrocio tra un arco di trionfo romano e un palazzo arabo con torri e decorazioni.
Del Marine Drive, il nostro quartiere, si è già un po’ detto: è soprattutto il quartiere del magnifico lungomare. Di altri si parlerà in seguito.
Martedì 14
Per le Grotte di Ellora si parte alle sei. La città è già sveglia. Sul lungomare si incontra chi può permettersi di praticare il jogging. Poi si attraversano i quartieri della periferia diseredata dove nessuno fa jogging. Anche qui, però, si incontrano uomini in fila. E’ giunto il momento di dire che un po’ dovunque, ma soprattutto in questi quartieri, è “usanza“ comune soddisfare i propri bisogni in pubblico, ovunque ci si trovi, senza troppo badare alla propria privacy. Questa volta, però, impressiona la lunga fila, perfettamente allineata lungo la corsia autostradale, ognuno con un piccolo secchiello di acqua per lavarsi dopo, aver compiuto l’operazione. Chissà se di privato questi possano conservare almeno la stessa posizione tutte le mattine! Sono scene inverosimili, che diventano vere soltanto agli occhi di chi abbia l’opportunità di partecipare allo “spettacolo“.
Scorrono così Km su Km. I primi 50 sono di strada discreta, poi è l’inferno. Il traffico pesante è quello già descritto, le strade sono dissestate come già si è detto. Qui però il tutto si complica per il fatto di dover oltrepassare un piccolo valico. Le manovre si fanno sempre più accidentate e impressionanti, tanto che nessuno fa la corsa per accomodarsi nei posti anteriori del pulmino. Oddio, anche negli ultimi posti, però!
La media delle prime quattro ore di viaggio non supera i 30 Km.; si prevede l’arrivo in nottata.
Per fortuna non sarà così: dopo Nasik si cambia rotta. Strade secondarie più veloci ci consentono di recuperare notevolmente. La campagna che si attraversa è molto verde e fresca. E’ anche molto fertile. Il paesaggio è collinare, tutt’altro che monotono. Le coltivazioni sono curatissime e anche la cura dei monsoni le favorisce. Si riconoscono coltivazioni di patate, melanzane, mais, miglio e riso.
A un certo punto del viaggio si incrocia una lunga fila di uomini, donne e bambini che insieme ai loro animali stanno transumando. Portano tutto con sé, portano quel poco che hanno: qualche padella, un po’ di legna, qualche attrezzo, qualche straccio per coprirsi. E poi, in una specie di saccoccia, messa a tracolla dell’asinello, si scorgono i capi tremolanti di teneri animaletti appena nati: sono sicuramente agnelli.
Alle tre siamo finalmente di fronte alle Grotte di Ellora: uno scenario semplicemente divino. Templi grandiosi, monasteri rupestri che sono fra i monumenti più importanti dell’India. Opera in parte di monaci buddisti ( IV-VI secolo ), in parte di religiosi indù e giainisti. Colpisce e stupisce soprattutto lo splendore delle sculture, raccolte nelle ben 34 grotte. L’opera più straordinaria, nonché il più grande tempio rupestre dell’India, è il Tempio di Kailash: la grotta n° 16. Impressionante! Un vero e proprio santuario scavato dall’alto, un enorme monolito che rappresenta il dio-montagna Kailash. La decorazione scultorea è ricchissima, una specie di rassegna del magico mondo della mitologia indiana. E’ naturale che merita dedicarvi l’intero pomeriggio. La notte si passa ad Aurangabad, distante 30 Km, nell’albergo più caro di tutti, il “President Park “.
Mercoledì 15
E’ ferragosto, ci si concede una sveglia ritardata e si riparte per Bombay alle dieci. Un viaggio interminabile, che riattraversa lo stesso paesaggio dell’andata. Ancora una volta lo stesso traffico, gli stessi intralci, le stesse soste, gli stessi incidenti, la stessa fila di camion che potrebbe indurvi a immaginare un viaggio monotono. In realtà niente è monotono, perché anche gli stessi avvenimenti non si ripetono mai con le medesime modalità. Per non parlare degli imprevisti che vanno previsti. Niente può ritenersi previsto in tutto ciò che accade in questo straordinario Paese.
La sosta per la foratura di una gomma si trasforma in un evento. Immediatamente si è circondati dagli abitanti del luogo, che vivono fatti così normalissimi come fossero avvenimenti. Certo, sono incuriositi principalmente dalla nostra presenza. E anche se siamo in piena campagna, anche se pochissimi parlano inglese, si riesce comunque a comunicare, a scambiarci gli indirizzi e a promettere di inviare le foto di gruppo scattate nell’occasione: Sharad Bhausaheb Pawar At Post. Suregoan Ta.l Yeola Dist. Nasik Maharastra.
C’è poi l’impresa della riparazione, dunque l’attraversamento del valico e infine l’arrivo, quando ormai è notte e tanta è la voglia di riposo.
Giovedì 16
E’ questo il nostro ultimo giorno di permanenza in India. Restano ancora molte opportuinità che Bombay può offrirci. Al mattino, di buon’ora, si scappa a visitare il grande “Bazar“, un insieme illimitato di tanti bazar specializzati. Si trova di tutto nel “Crawford Market “: oro, argento, tessuti, spezie, ecc. ecc.
Attraversando quel labirinto di straducole si coglie in pieno l’atmosfera di una grande metropoli qual è Bombay, questa volta l’atmosfera della Bombay tipicamente indiana. Il “Chor Bazar” è il più caratteristico di tutti gli altri, è il “Mercato dei Ladri“, qualcosa che potrebbe assomigliare al nostro mercato delle pulci. Si dice che non poca della merce in vendita sia, appunto, rubata.
A fine mattinata ci si divide e, senza pranzare, (mentre Stefania e Gianni che resteranno a Bombay due giorni in più decidono giustamente di prendersela con calma), noi si parte per la visita dell’Isola Elefanta. Il battello salpa con il classico ritardo dal Gateway of India e impiega un’ora per arrivare a questa isola che ospita il Tempio rupestre dedicato al Dio Shiva. Alla grotta principale, quella con la celebre statua di Shiva a tre teste, si arriva dopo aver percorso una ripida scalinata. Non vi è dubbio che si tratta di una scultura suggestiva, anche se dopo aver visitato le “Grotte di Ellora“ è difficile imbattersi in qualcosa che possa reggere il confronto. La vegetazione è invece particolarmente lussureggiante: manghi, tamarindi e altro ancora. Così come particolarmente gradevole è il contrasto con la frenesia metropolitana di Bombay. Sulla via del ritorno, si ha a che fare con un mare molto agitato (come spesso, ci dicono, accade) e mentre Pietro ed Enrico vivono l’attraversamento incuriositi e affascinati, io e Sandra lo viviamo impauriti e preoccupati. Approssimandoci a riva si gode una vista straordinaria, specialmente per l’accostamento del Gateway of India e il Taj Mahal Hotel, che a quell’ora sono resi ancora più affascinanti per le prime luci che vi si accendono.
All’ora di cena, tutti ricongiunti, si parte per il nostro ultimo appuntamento indiano in un ristorante vegetariano. Poi gli abbracci, i saluti e la partenza di noi primi cinque, per essere in aeroporto almeno all’una di notte. Le operazioni di imbarco sono molto più semplici del previsto e programmato, tant’è che ci rientra anche una bella dormita, interrotta improvvisamente da un mio altolà quando, altrettanto improvvisamente, m’accorgo che si stanno completando le operazioni di imbarco per Mosca. Si vola per tutta la notte, per arrivare a Mosca alle dieci dell’indomani mattina.
Venerdì 17
Mosca, la voglia di riviverne il cuore dopo un’assenza di undici anni. Si sceglie di usare i mezzi pubblici per recarci in città: prima l’autobus (comodissimo e rapido), poi la mitica metropolitana, sempre in buona forma, non c’è che dire. Intorno a mezzogiorno siamo al nostro albergo, il “Beograd”, già prenotato dall’Italia, condizione per ottenere il visto. Si trova di fronte al memorabile Ministero degli Esteri, una grande torre dove, proprio undici anni prima, ero stato ricevuto alla Direzione Rapporti Culturali Internazionali, in veste di assessore della Provincia di Firenze, insieme al dirigente Mario Sperenzi e alla direttrice della Galleria “Il Bisonte” di Firenze, Sig.ra Maria Luigia Guaita. Proprio qui ha inizio la famosa “Arbat”, il lungo viale pedonale che porta direttamente alla Piazza Rossa, salito agli onori della cronaca a partire dagli anni della presidenza gorbacioviana. Oggi si è molto arricchito: numerosissimi bar e ristoranti, negozi tipici e cari, bancarelle volanti… e soprattutto una folla composta sì da turisti, ma anche da giovani locali un po’ speciali, ognuno con la propria bottiglia di birra in mano, comprese le ragazze, dediti alcuni allo spettacolo, altri probabilmente a traffici non del tutto chiari. Ci sono in mezzo anche molti mendicanti, giovani ed anziani che, come vedremo, passano la notte sulla strada o al riparo delle stazioni del metrò.
A Mosca si esplicita con molta evidenza lo stridore fra categorie di nuovi ricchi e ricchissimi e i nuovi poveri e poverissimi. Appartengono alla categoria dei ricchi coloro che possono permettersi, per esempio, di fare acquisti negli storici magazzini “Gum”, oggi stracolmi di marche e prodotti carissimi, con prezzi che superano addirittura quelli praticati in Italia. L’intera giornata è dedicata al centro di Mosca: la Piazza Rossa, il San Basilio, il Cremlino, il Mausoleo di Lenin, ancora al suo posto. E poi ancora le vie d’intorno, per passare di fronte al “Metropolitan”, al “Bolscioi”, alla “Lubianka”,al “Puskin”. Quanta Storia, quanta Memoria, quanti Sogni. Lasciamoci qui, per favore, per evitare il rischio di aggiungere sensazioni che potrebbero risultare demodé, forse sconfinare nella retorica o addirittura alimentarsi alla fonte della nostalgia. Lasciamoci qui, anche perché il nostro viaggio è davvero concluso e da raccontare non resterebbe che la lunga, pazza corsa, sempre ostinatamente con mezzi pubblici, per tornare al mattino presto in aeroporto. Poi la lunga fila agli sportelli, accorciata nell’unico modo possibile: quello di abusare della pazienza altrui. Infine, la partenza puntuale, un comodo volo di tre ore e alle undici del 18 agosto, eccoci atterrare alla Malpensa. Sani e salvi. Sfiniti, ma soddisfatti di aver praticato una splendida avventura. Alla prossima volta! Sperando proprio che sia più prossima possibile.