Cultura del Novecento e scuola: poco in genere, poco su Campana.
Dino Campana visse in maniera travagliata e avventurosa: viaggiò, fu in carcere, morì in manicomio. Rimbaud italiano: poeta errante, visionario e maledetto. Stereotipo del poète maudit. Campana poeta allo stato puro per vocazione, poeta toccato e divorato dal fuoco, poeta che è entrato nel cuore stesso della notte e che non ne è uscito più Figura balzana e pittoresca rispetto all’ortodossia del novecento? Poesia e arte, arte e vita che coincidono, vita come opera d’arte (che molti non hanno capito?). Sguardo che coglie quel che il normale non riesce a cogliere. La letteratura ci concede qualcosa di più rispetto alla natura: uscire da noi stessi per diventare altri. Perché sa cogliere il magico che non si può mai spiegare e riproporlo in forma di parole allusive, non descrittive. Il Poeta chi è? Un fenomeno da baraccone, un deviante, uno che non appartiene alla normalità.
Alda Merini, Sexton, Amelia Rosselli: il poeta è qualcuno che si dà pensiero di avere pensieri, volontà di distinzione, di non massificazione. La poesia è nomade. Mai stanziale, ci fa attraversare l’animo umano. E’ il territorio del possibile. E’ il regno della libertà. Supera il mondo, forgiando mille mondi possibili con mille storie possibili. Anzi mille e una. Come Sherazade. Poesia è gioco? Se si scrive per gioco, allora è un gioco che somiglia a quello dei bambini, di una terribile serietà. Perché è un mettere se stesso tutto in gioco. Come il sorriso della Giocanda, beffardo e ineffabile, sempre pronto ricordarci il limite della conoscenza umana, l’imprescrutabilità dell’universo. Ed è come se dicesse: ti è stato concesso di conoscere fino a qui, non puoi andare oltre. E questo oltre è proprio il terreno dell’arte e della poesia.
“La letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta” (Fernando Pessoa) e allora arte è oltrepassarla.
La poesia è stata in tutti i tempi,
vivere secondo la carne.
Ha costituito il peccato della carne fatto parola,
eternato nell’espressione, oggettivato.
Maria Zambrano (da Filosofia e poesia)
Canti orfici usa il linguaggio umano per alludere a una forma di conoscenza superiore, quasi divina, esoterica, iniziatica. Al di là della normalità… Ma cos’è la normalità? Domenica in, gli ingorghi, i film di Natale, le barzellette sporche, le battute pesanti, la trivialità, la violenza… Identità massificate, libere dal pensiero di avere pensieri. Normalità: scialba, sogno = pubblicità, anche dio è in dio ragioniere, persone in corsivo scritte a lapis nell’indice della vita, pedine di qualcun altro, ritualizzano tutto, non giocano, guardano gli altri giocare, i gesti sono ripetitivi, incapaci di percepire il piacere della modernità, oscuramento del gusto, immobilizzazione del tempo, paura del cambiamento, la normalità è prosa? Diversità: spigoli trendy, eccentricità, fuori, sogni azzardati, vivace, persone in neretto nell’indice della loro vita, giocano non guardano gli altri giocare, azzardano, coreografia del gusto, accelerazione del tempo, impellenza del cambiamento, la diversità è poesia?
Pazzia è una parola. Ma le parole contano? Le parole non contano, contano i fatti recita il senso comune. C’è però uno strettissimo legame fra ciò che si dice e ciò che si è, infatti le parole che usiamo sono il nostro modo di vedere il mondo. Le parole sono le nostre idee che transitano, escono e prendono corpo, si fanno azione. E le idee sono esperienze che evocano i fatti in potenza. Ma quali esperienze e fatti evoca la parola pazzia? Esclusioni, pregiudizi, emarginazioni, discriminazioni, persecuzioni, intolleranze, segregazioni.
Pazzo è uno spintone che allontana.
Pazzo è uno sputo, uno schiaffo e una pedata.
Pazzo non è una parola a lieto fine.
Pazzo non è musica è rumore.
Pazzo è una mazzata linguistica, è una parola che stride, eticamente e affettivamente, allora c’è bisogno di chiarirla, di catturare e comprendere l’idea che l’ha generata.
Si fa d’un erba un fascio, senza distinguere individui e diversità. L’occidente ha elaborato l’idea di pazzia, come alterità naturale, biologica e culturale. Si definisce l’altro con un linguaggio, e quindi con un’operazione storico-culturale, che si fonda su rapporti di potere economico-sociali e l’idea–parola, serve per legittimarli.
Pazzia è quindi un’idea di superiorità che permette di designare gli altri
Pazzia è uno steccato che separa: Porta chiusa fa buon vicinato.
Pazzia non è una parola neutra, veicola diversità e disuguaglianza
Pazzia è una stratificazione di stereotipi che si trasmettono più o meno consapevolmente
Pazzia transita per inerzia o per malizia da una generazione all’altra
Pazzia è un’autolegittimazione della superiorità della normalità
E allora occorre reinventare parole che parlano, parole che cantano, parole che valgono e quindi sono, come le parole dei poeti che superano il senso, dicono il taciuto, si sporgono sul confine, accarezzano il margine, rischiano, cambiano, creano.
Margine: “Essere nel margine significa appartenere, pur essendo esterni, al corpo principale. Per noi, americani neri, abitanti di una piccola città del Kentucky, i binari della ferrovia sono stati il segno tangibile e quotidiano della nostra marginalità. Al di là di quei binari c’erano strade asfaltate, negozi in cui non potevamo entrare, ristoranti in cui non potevamo mangiare e persone che non potevamo guardare dritto in faccia. Al di là di quei binari c’era un mondo in cui potevamo lavorare come domestiche, custodi, prostitute, fintanto che eravamo in grado di servire. Ci era concesso di accedere a quel mondo, ma non di viverci. Ogni sera dovevamo fare ritorno al margine, attraversare la ferrovia per raggiungere baracche e case abbandonate al limite estremo della città. C’erano leggi a governare i nostri movimenti nel territorio. Non tornare significava correre il rischio di essere puniti. Vivendo in questo modo – all’estremità -, abbiamo sviluppato uno sguardo particolare sul mondo. Guardando dall’esterno verso l’interno e viceversa, abbiamo concentrato la nostra attenzione tanto sul centro quanto sul margine. Li capivamo entrambi. Questo modo di osservare ci impediva di dimenticare che l’universo è una cosa sola, un corpo unico fatto di margine e centro. La nostra sopravvivenza dipendeva da una crescente consapevolezza pubblica della separazione fra i due luoghi e da un sempre più diffuso riconoscersi degli individui come parte necessaria e vitale di un insieme. Questo senso di appartenenza impresso nelle nostre coscienze dalla struttura della vita quotidiana, ci ha dato una visione oppositiva del mondo – un modo di vedere sconosciuto a gran parte dei nostri oppressori. Esso ci ha sostenuti e aiutati nella lotta contro la povertà e la disperazione, rafforzando il nostro senso di identità e di solidarietà.” (Bell Hooks, Feminist Theory: From Margin To Center, South End Press, Boston 1984; sottolineature e corsivi di S. L.)
Andrea Zanzotto: “…quando si scrive poesia si è costretti a partire per scrivere qualcosa, ma non si sa mai quello che apparirà. C’è veramente un momento in cui uno perde il contatto, non dico con la progettualità, ma addirittura con la compulsione sotterranea che lo spinge a scrivere senza sapere neanche il perché, sente che deve scrivere entro un largo campo di argomenti, ma poi che cosa nascerà? Non può saperlo perché esiste uno strato in tutti noi che comunica con tutti noi, come un inconscio collettivo che attraversa anche le lingue e i tempi. Sono in tutti noi non scritte, tante storie a brandelli, ai poeti e agli artisti tocca metterle nero su bianco.”