Magis è un libro che raccoglie poesie e racconti dedicati a maestre e maestri, con opere visive di 13 artisti contemporanei, (Morgana, Firenze 2008). L’esposizione delle opere e la presentazione del libro ha interessato diversi luoghi: Consiglio Regionale, Palazzo Panciatichi, Firenze, marzo 2008; Palazzo Pretorio, Certaldo, aprile 2008; Centro “Otello Cirri” Pontedera, novembre 2008.
Magistralmente
Ancora sia la maieutica
Generosa genitura dell’
Imparare insegnando
Sapidi sapori sapendo
Una storia piena di maestre!
Maestra non è il femminile di maestro, sono due parole diverse.
Anche se sono stati molti i maestri, nella scuola italiana il ruolo prevalente è ed è stato femminile. Nell’immaginario collettivo fare la maestra si configura ben presto come un mestiere delle donne, sbrigativo negli studi, poco impegnativo – part-time che non sconvolge l’andamento domestico – così scarsamente retribuito da non compromettere nemmeno la leadership maschile all’interno della famiglia borghese.
La maestra, nella storia, tra realtà e leggenda, si presenta come un personaggio eccentrico, una figura che infrange le barriere della casa paterna e sceglie di operare nel pubblico. Rompe i modelli di donna che si erano costruiti nell’ottocento: la ragazza di buona famiglia e la giovane del popolo. Anzi spesso erano proprio le ragazze del popolo che cercavano in questo ruolo un’occasione di miglioramento delle proprie condizioni sociali.
La maggior brevità degli studi magistrali, il loro minore impegno e la speranza di una promozione sociale, avevano spinto tante di queste ragazze a intraprendere l’unica strada che si presentava loro per raggiungere un minimo di emancipazione sociale e culturale. Questo ruolo dimentica però che la parola maestra deriva da magis (mettere l’accento grave sulla a), il latino più, configurandosi piuttosto come “docente di piccole cose per piccoli uomini”. Sono richieste infatti poche competenze tecniche e molte virtù, perché si usa dire “quando c’è il cuore c’è tutto!”
Nonostante la limitatezza della formazione professionale però, fu una strada faticosa per queste intraprendenti ragazze del primo Novecento, che percepivano un terzo in meno dello stipendio dei colleghi maschi, e, poiché la nomina era di competenza del Comuni, furono esposte alle attenzioni spesso pesanti delle autorità preposte.
Le storie che si raccontano sono davvero drammatiche, come quella di Italia Donati narrata in molte cronache: insidiata inutilmente dal sindaco dongiovanni, si era suicidata a cause delle maldicenze, lasciando sul cadavere un biglietto in cui chiedeva una visita ginecologica che attestasse, pur da morta, la sua illibatezza. La visita fu eseguita, la verginità fu attestata, ma anche la sua morte. Simile è la storia narrata da De Amicis in Primo Maggio : “era stata oggetto d’una ferocissima persecuzione da parte d’un signorotto campagnolo, assessore comunale e tirannucolo dei dintorni: il quale, offeso a sangue delle sue ripulse sdegnose e della manifestazione pubblica del suo disprezzo, l’aveva calunniata, diffamata, torturata, fatta sospender dalla scuola e dallo stipendio e ridotta alla miseria e alla disperazione, suscitando contro di lei le ire di tutto il paese”. Anche in questo caso la malcapitata tenta il suicidio ed è salvata proprio dalla giovane moglie del personaggio principale del romanzo.
Ed è colpa loro attrarre tante attenzioni: “… Ci son delle personcine che ci fanno disperare, anche senza loro colpa, per colpa di madre natura, che le ha fatte come sono, che attirano gli occhi”.
Fu un tentativo, insomma, non poco sofferto per acquisire con il lavoro una soggettività sociale, smorzato sul nascere dalla cultura dominante, che lo volle subito ricondurre in una dimensione familiare, quale espressione dei valori dominanti come il rispetto della tradizione e delle regole sociali, la laboriosità e l’ossequio all’autorità costituita.
La missione magistrale viene infatti subito intesa come attività di cura quasi monacale o maternage, prolungamento del tradizionale ruolo materno. Dire “era come una madre” è stato per anni il maggior riconoscimento per una maestra.
Alle donne viene attribuita una sensibilità maggiore soprattutto con i bambini più piccoli, infatti con il progredire dei gradi scolastici aumentano gli uomini insegnanti. Perdono d’importanza gli aspetti psicologici ed emotivi, mentre si potenzia la valenza degli aspetti cognitivi. Insomma alle donne il cuore, agli uomini la ragione. E’ sempre la stessa storia.
Aumentano gli uomini anche con il progredire delle cariche. Con il Regio Decreto del 28 settembre del 1934 le donne vengono escluse dalla nomina a Preside e Direttore delle scuole medie e d’istruzione tecnica.
In epoca fascista si enfatizza il ruolo delle donne maestre per la formazione dei soldati necessari per difendere l’impero, ma sempre “in una subordinata ritiratezza che escluda qualsiasi forma di protagonismo. Di assunzione di cariche direttive, di rivendicazione di diritti.”
Il maschile, più che maestro di scuola, è stato molto usato nella cultura di senso comune in senso esaltativo: c’è il maestro di pensiero e il maestro di menzogne, per cui vale più un colpo da maestro che cento da manovale, ma bisogna applicarsi molto, perché nessuno nasce maestro. Poi ognuno ha i suoi maestri: c’è il maestro venerabile, il maestro di cerimonie, persino il maestro della camera del papa e naturalmente il maitre a penser (credo che abbia qualche accento!) che non ha corrispondenza femminile.
Nel medioevo, presso i Merovingi, il maestro di palazzo è sovrintendente del palazzo reale e assume addirittura le funzioni di primo ministro. Nel linguaggio dell’arte è un caposcuola. Una lectio magistralis è una lezione capace di fare scuola, di creare o di incidere su un pensiero. Ancora oggi quante lectio magistralis sono affidate a donne? Insomma è un titolo riconosciuto a personalità eminenti, destinate a primeggiare in vari ambiti. Ecco che il magis (sempre accento sulla a ) è recuperato dalla parola nella sua coniugazione al maschile.
La maestra però ha avuto la sua rivincita nella sublimazione operata dal paternalismo borghese dell’opera deamicisiana, dove è esaltata l’etica del sacrificio, la retorica della bontà e della dedizione.
La letteratura nel suo complesso offre però l’opportunità di numerose citazioni: le giovani maestre di Matilde Serao, la maestrina Boccarmé di Luigi Pirandello, le maestre fasciste di Beppe Finoglio, le maestrine di Cesare Pavese, fino ad arrivare alla spaurita maestrina di Elsa Morante. “La donna, di professione maestra elementare, si chiamava Ida Ramundo vedova Mancuso. (…) Di età aveva trentasette anni compiuti, e davvero non cercava di sembrare meno anziana. Il suo corpo piuttosto denutrito, e informe nella struttura, dal petto sfiorito e dalla parte inferiore malamente ingrossata, era coperto alla meglio da un cappottino marrone da vecchia, con un collettino di pelliccia assai consunto, e una fodera grigiastra che mostrava gli orli stracciati fuori dalle maniche. (…) Ida era rimasta, nel fondo, una bambina, perché la sua precipua relazione col mondo era sempre stata e rimaneva (consapevole o no) una soggezione spaurita. I soli a non farle paura, in realtà erano stati suo padre, suo marito, e più tardi, forse, i suoi scolaretti.”
Ma è l’opera di Edmondo De Amicis a rimanere impressa nell’immaginario collettivo. De Amicis racconta di una “maestra alpinista” che durante i mesi invernali si recava a far scuola nelle diverse borgate con le racchette ai piedi e il cestone sulle spalle. Narra di molte che erano costrette a svolgere altri lavori per tirare avanti: “la maestra Pezza era una ragazza di più di trent’anni, gialla, con gli occhi malati, vestita come una donna che non ha più alcuna cura di sé e la Fabrizio, una contadina cinquantenne, d’una faccia lignea e astuta col fazzoletto in capo e il grembiale, e le forbici appese alla cintura”.
Le “operaie dei cuori”, le “vestali dell’istruzione”, le “missionarie di civiltà” trovano però la loro canonizzazione nella figura della “maestrina dalla penna rossa”. “La maestrina della prima inferiore, quella giovane col viso color di rosa, che ha due belle pozzette nelle guancie, e porta una gran penna rossa sul cappellino e una crocetta di vetro giallo appesa al collo. E’ sempre allegra, tien la classe allegra, sorride sempre, grida sempre con la sua voce argentina che par che canti, picchiando la bacchetta sul tavolino e battendo le mani per impor silenzio; poi quando escono corre come una bambina dietro all’uno e all’altro per rimetterli in fila; e a questo tira su il bavero, a quell’altro abbottona il cappotto perché non infreddino, li segue fin nella strada perché non s’accapiglino, supplica i parenti che non li castighino a casa, porta delle pastiglie a quei che han la tosse, impresta il suo manicotto a quelli che han freddo; ed è tormentata continuamente dai più piccoli che le fanno le carezze e le chiedon dei baci, tirandola pel velo e per la mantiglia; ma essa li lascia fare e li bacia tutti, ridendo, e ogni giorno ritorna a casa arruffata e sgolata, tutta ansante e tutta contenta, con le sue belle pozzette e la sua penna rossa”.
L’enfasi della descrizione, che adesso può far sorridere, fece della maestrina un emblema dell’entusiasmo giovanile e dell’amor magistral-materno, costruendo un modo di dire e di essere non privo di ambiguità, con quella penna rossa inalberata come un inconsapevole (?) richiamo erotico.
Amor materno, amor filiale e altri amori, tutti necessari per portare a compimento la “missione” magistrale con cospicuo dispendio di artifici retorici ed enfatizzazioni.
Ma la storia e la letteratura hanno anche delineato le maestre altre, quelle che adesso popolano la cronaca quotidiana, armate di scotch per cucire le bocche e di attenzioni sospette verso i poveri bambini, mentre sempre più rara appare, oggi come ieri, la faticosa virtù del saper insegnare.
Mi riferisco a quelle maestre che hanno sempre un primo della classe – guarda caso, maschio – ossequioso e secchione, con aspetto fisico parlante, che assumono a regola professionale e di vita un comportamento atto a sopire ogni desiderio di originalità e di innovazione, pronte a dispensare umiliazioni a chi la società non ha risparmiato, umiliandolo con la povertà o la diversità.
Significativa è la maestra Argia Sforza, emblema piccolo borghese, superficiale e perbenista, trasformata nel personaggio di Arpia Sferza da Bianca Pitzorno in Ascolta il mio cuore.
Tutto passato attraverso la finzione letteraria, “ma il tempo, i problemi, il clima restava quello dei miei personali anni cinquanta” afferma la scrittrice.
Esemplare la sua descrizione: “la maestra Sforza era di media statura, rotondetta e più anziana di quanto si aspettassero. O forse lo sembrava perché era tutta grigia. Aveva i capelli ondulati color grigio ferro e gli occhiali di metallo. Indossava una gonna grigia e una giacca di maglia grigia. Anche la sua faccia, pensò Elisa, sembrava grigia, nonostante la macchia violenta del rossetto color ciclamino.”
L’elencazione delle malvagità compiute è veramente un catalogo di azioni crudeli contro le bambine più povere e di azioni da “leccapiedi” verso quelle più ricche: “una leccapiedi che striscia davanti ai potenti fa schifo come un topo di fogna”.
L’Italia rimane ancora oggi un paese con un alto tasso di femminilizzazione dell’insegnamento, non solo nel settore elementare; e spesso le donne insegnanti sono state ritenute responsabili del basso livello della scuola italiana, colpevoli di poca cultura e di assenteismo. Ma queste “vestali” dell’istruzione hanno dato un contributo straordinario alla crescita del paese. Tappe essenziali sono state il ’63, con l’elevamento dell’obbligo scolastico, il ’68, con le contestazioni a un tipo di cultura gentiliana astratta e ripetitiva, e la nascita del femminismo.
All’interno del corpo docente attuale, sempre fortemente femminilizzato, sono intercorsi forti cambiamenti generazionali, molte insegnanti si presentano con una cultura di base più moderna e appropriata, spesso tendente a valorizzare la “cultura di genere” nel loro insegnamento, sempre più consapevoli della connotazione maschile delle conoscenze e dell’estromissione dell’intelligenza e dell’esperienza delle donne nella costruzione del sapere occidentale.
A parte gli esempi estremi, la nostra scuola è ed è stata popolata di figure veramente magistrali, che hanno saputo coniugare un impegno costante volto alla valorizzazione della loro professionalità, con una grande capacità di instaurare quel rapporto empatico e maieutico, capace di mettere in condizione alunne e alunni di dare il meglio di loro stessi.
Maestre tiranne o pseudomadri, educatrici professioniste o appassionate, dotte, severe, pazienti, esigenti… il ruolo che hanno esercitato ha inciso profondamente nella formazione di tutte e di tutti noi, così il Consiglio Regionale della Toscana insieme all’Associazione Griselda vuole ricordarlo.
Ecco quindi ritratti, poesie, ricordi in forma di immagini e di parole.
Artisti
Biondi Riccardo
Bucchi Massimo
Corsi Fiorella
Franceschi Kiki
Gallois Caroline
Ghelli Giuliano
Grigò Paolo
Mori Massimo
Pezzatini Lorenzo
Poggiali Berlinghieri Giampiero
Staino Sergio
Verdi Margherita
Viliani Laura
Autori
Acidini Cristina
Bartolucci Vittoria
Basagoitia Gladys
Bettarini Mariella
Broi Gianni
Brollo Boris
Bruschi Brunella
Bucchi Massimo
Carasso Jean – Michel
Cardènas Ruth
Cascone Gianni
Chiti Lucchesi Eleonora
Crispino Anna Maria
Di Cori Paola
Farabbi Anna Maria
Filippi Simonetta
Fontana Antonia Ida
Gianfelici Gabriella
Lami Lucio
Landi Sandra
Lanzetta Maria
Lenti Maria
Loi Franco
Lucarini Paola
Maleti Gabriella
Manca Diego
Melandri Lea
Moschini Maria Pia
Occupati Giuliana
Pampaloni Daniela
Panella Giuseppe
Pistolesi Alice
Pozzi Lucio
Sangiovanni Emma
Sanguineti Carla
Segato Giorgio
Ugolini Liliana
Vezzosi Alessandro
Vezzosi Valeria
Zuccaro Sergio