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Monade
Esistenziale
E allora come emergere dalla monade esistenziale?
Naturalmente parlo da donna occidentale europea che vive in Italia in questo periodo storico, caratterizzato dal fenomeno dello spostamento di interi popoli.
E in cui i Diritti umani sono norme più o meno conosciute e riconosciute, ma non riescono a far parte di quella cultura interiorizzata capace di tradursi in normali regole comportamentali.
Ecco che occorre inoltrarsi sulla faglia lungo la quale si incrina (anzi si è già incrinata) la dinamica complessiva dei rapporti umani del nostro tempo, per cui gli uomini e le donne, diversi come genere, provenienza e cultura, già costretti dall’ineguale distribuzione delle risorse a guardarsi in cagnesco o a sospettarsi l’un l’altro, si trovano in una ulteriore posizione di antagonismo, regressi a una primordiale condizione di difesa del territorio.
Invece la voce della poesia, aldilà di ogni buonismo, pietismo, di ogni ismo… parla diversamente:
Due braccia ho avuto- per tenderle
A ognuno entrambe…
Marina Cvetaeva
Zygmunt Baumann definì la nostra società postmoderna come una società liquida, mutevole e difficilmente padroneggiabile, ma adesso siamo di fronte a un nuovo tipo di società che definirei atomistica, quasi pulviscolare, composta da atomi, da monadi appunto, pronte a scontrarsi, a implodere o esplodere in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento.
Le persone sono perlopiù individui dediti a un egotismo impressionante, lampante dimostrazione è il proliferare dei selfie: ognuno ritrae, in qualsiasi luogo e occasione, se stesso.
E queste persone sono costrette dalla storia a incontrarsi-scontrarsi con individui altri: di genere, di provenienza, di religione, di cultura.
Ci ritroviamo in una società perlopiù composta da individui che si pongono troppo spesso contro, raramente accanto, ancor più raramente insieme.
Stiamo insomma vivendo una sorta di interregno gramsciano. Una categoria da molti recuperata per descrivere i nostri tempi, quando “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”.
E allora molti scelgono di relegare la spinosa questione dei diritti su un piano teorico, preferendo poi vivere nel concreto secondo i propri diritti acquisiti.
Ci troviamo immersi in un’atmosfera di individualismo edonista che ha smarrito il senso della comunità.
Comunità può essere una parola muro o una parola ponte.
Cum munibus non Cum moenibus
Se facciamo risalire la parola all’etimo cum munibus è una parola ponte: avere insieme doni e metterli in comune; se invece la facciamo risalire a moenia e quindi a mura, diventa una parola muro.
E parlare non significa comunicare.
Il vero significato di comunicare è mettere i doni in comune.
Invece il senso di appartenenza provoca una difesa dei propri presunti diritti e quindi chiusure, etnocentrismi, esclusioni, razzismi… così gli immigrati di ieri (battute sui meridionali) si mischiano agli immigrati di oggi in una cultura di massa all’insegna di un razzismo senza razza che porta a una chiusura verso gli altri, chiunque essi siano, in sostanza al non riconoscimento dei più elementari DIRITTI UMANI.
Eppure ancora una volta la poesia così si esprime:
Lo straniero è la faccia nascosta della nostra identità.
Riconoscendolo in noi, ci risparmiamo di detestarlo in lui.
Julia Kristeva
Il nostro secolo è stato caratterizzato dall’esplosione delle differenze (logiche, analogiche, antropologiche, di cultura e di genere).
Ci sentiamo parte di un habitat che ci nutre con la sua organizzazione e i suoi valori, ma c’è il pericolo di restare bloccati sull’orizzonte del locale.
Con il rischio di passare dalle piccole patrie, ai localismi, alle pulizie etniche.
E allora la parola Comunità diventa una parola muro
Eppure il significato originario di ambiente (ambo ire) è andare da tutte le parti con uno spostamento progressivo del compasso dell’orizzonte, per dirla col filosofo Remo Bodei.
Il processo di conoscenza della propria identità deve essere capace di andare oltre: da un dove a un altrove da un luogo a un non luogo.
Per esempio dal luogo del diritto al non luogo dell’arte.
Deve essere capace di costruire identità e di decostruirle, smascherarle, oltrepassarle.
Esserci e non esserci oscillazione fra dove e altrove.
Insomma il pronto riconoscimento dei diritti umani che ognuno ha per se stesso, dovrebbe provocare il pronto riconoscimento dei diritti degli altri.
E allora il senso del confine, inteso come punto di arrivo, dovrebbe diventare soprattutto punto di partenza.
Piena percezione della linea d’ombra che separa l’io dall’altro, il soggetto dall’alterità intese come categorie dell’essere, del pensiero e dell’azione.
Capacità di stare nell’alterità col pensiero e la volontà.
E per alterità intendo qualsiasi diversità di origine e di genere.
A incontrarsi o a scontrarsi non sono culture, ma persone. Se pensate come un dato assoluto, le culture divengono un recinto invalicabile, che alimenta nuove forme di razzismo. Ogni identità è fatta di memoria e di oblio nel suo costante divenire.
Marco Aime
Ancora da un dove a un altrove, da un luogo a un non luogo, un percorso ad alta potenzialità culturale perché ogni differenza è ricchezza.
Quindi come procedere lungo la strada, lungo il percorso che porta al riconoscimento dei diritti umani per tutti?
Bella domanda.
Lavorare non solo sulla norma, ma sull’educazione all’acquisizione comportamentale della norma: ricordiamo che non è solo la conoscenza della norma a garantirne il rispetto, ma la competenza ad esercitarla.
Ecco il grande ruolo della pedagogia nella famiglia e nella scuola, ma noi qui e ora, come?
Una risposta INSIEME
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Ma veniamo a un altro insieme.
Il mondo del diritto, per esempio, come il mondo di qualsiasi scienza, potrei dirlo per la matematica o per la letteratura, ha l’abitudine, per certi versi sacrosanta, di procedere per strade specialistiche e ciò aiuta l’approfondimento, ma in un’emergenza come questa occorre recuperare il senso di un rapporto positivo, il senso appunto dell’INSIEME.
Il fatto che questo convegno si svolga in questo luogo, una sorta di tempio della letteratura, a conclusione dell’esposizione delle opere di un’artista come Ai Weiwei è già un segno importante.
Personalmente ho sempre sostenuto una alleanza delle arti, sperimentando performance in cui la poesia dialoghi, per esempio, con la musica e la pittura.
Oltre a questo concetto dell’insieme, ho sempre guardato con interesse a quelle forme di arte che non avessero soltanto lo scopo di una fruizione estetica, ma anche sociale e politica.
Per ruolo sociale dell’arte intendo una nuova dimensione estetica che esprima, interpreti e modelli il sociale come dispositivo critico.
Le frontiere, materiali o mentali, di calce e mattoni o simboliche, sono a volte dei campi di battaglia, ma sono anche degli workshop creativi dell’arte del vivere insieme, dei terreni in cui vengono gettati e germogliano (consapevolmente o meno) i semi di forme future di umanità.
Zygmunt Baumann
Arte sociale in risposta alla politica, non al fare politica ma alla gestione della politica capace (a volte pure in-capace) di governare solo l’esistente, sorda verso i bisogni reali.
Arte sociale intesa come capacità di entrare nei meccanismi sociali e di rompere gli schemi abitudinari, l’omologazione, il pensiero egemonico e aprire un diverso immaginario, con un nuovo orizzonte di creatività, atto a spingere a un rinnovato impegno sociale.
La figura dell’artista, tradizionalmente intesa, diviene altro: diventa facilitatore, connettore, catalizzatore, colui che raccoglie ed elabora i feedback. Una figura ibrida, non assimilabile ad un ruolo preciso, dai contorni indefiniti, pronta ad assume nuove valenze.
Piega l’arte a diventare un linguaggio critico che riassume e rielabora i diversi modi in cui si esprime il potere: esplora le tensioni della cultura trasformandole in oggetti, critica l’attuale società utilizzandone gli strumenti.
Trasforma il materiale che usa in un luogo di confronto con le tensioni della storia.
E qui l’artista si misura nella ricerca di un’attualità del linguaggio capace di essere collettore di idee, rivelatore sensibile del presente e spinta alla creazione del futuro.
L’arte contesta il reale, ma non vi si sottrae.
Albert Camus
Beuys (e anche Ai Weiwei) si dedicava alla creazione di oggetti-sculture-installazioni, derivanti da operazioni artistiche finalizzate alla sollecitazione di una coscienza critica nel pubblico.
Anche con provocazioni che spingessero alla mobilitazione, comunque all’azione.
Anche gli uomini di fronte alle donne, si trovano in una ulteriore posizione di antagonismo, di primordiale difesa del territorio.
L’affermazione del valore inalienabile dei diritti umani rimane sul piano teorico e stenta, dappertutto, a sostanziarsi nei comportamenti quotidiani, soprattutto se si considera il rapporto fra libertà individuali affermate a livello di principi, e realtà delle condizioni economiche e sociali necessarie per attuarle.
Basti pensare al più elementare diritto: il diritto alla vita.
Non possiamo dimenticare i delitti e le continue violenze sulle donne, gli abusi nella sfera privata, le gravissime violazioni dei diritti individuali, l’assoluto non rispetto delle garanzie nelle situazioni di conflitto armato e la progressiva femminilizzazione della povertà che i dati, a livello mondiale, ci presentano.
Permangono, abbarbicate alle culture, violenze imposte da barbare consuetudini, discriminazioni religiose e sociali.
Anche quando è finito il peso della legge, rimane quello della tradizione, così in numerosi paesi la condizione della donna è di totale sofferenza.
La grande finalità “tutti i diritti per tutte” è ancora lontana.
Grazie al fermento della cultura femminista elaborata anni fa, si sta diffondendo un nuovo clima, più pragmatico, e attento alle modifiche di breve periodo, che tenta però di far uscire la questione femminile dalla sua separatezza e di condurla nella dimensione più ampia del dibattito culturale.
Tutto ciò dovrebbe avvenire senza approcci di tipo ideologico, ma anche senza perdere quella carica di spinta ideale che aveva assunto qualche anno fa.
Sul piano della ricerca, poi, occorre superare una modalità di studio delle differenze imperniata sulla polarizzazione maschio/femmina, movendosi nella prospettiva di un continuum, in cui il maschile e il femminile sono soltanto due poli. In sostanza si tratta di considerare le categorie di genere allargandole e sfumandole nei contorni, senza etichettare gli individui a priori in modo definitivo.
In teoria si è affermato il diritto alla differenza, senza promuovere in modo adeguato la formazione di una cultura della differenza.
Spesso, con superficialità, si è caduti nell’errore di sostituire ai vecchi pregiudizi sessisti, pregiudizi di segno contrario. E il problema, per la sua natura sociale, politica e antropologica, tocca trasversalmente tutti e soprattutto gli uomini.
Altrimenti continueremo a sprecare quel grande potenziale costituito da donne che raggiungono risultati migliori negli studi, curano più degli uomini la loro cultura – usufruendo in maggior misura dei percorsi informali (teatro, biblioteche ecc.) – e non riescono a sfondare quel “tetto di cristallo” che le separa dalle carriere dirigenziali.
Per promuovere la presenza femminile nei luoghi decisionali, non può bastare la produzione di regole, tanto meno di ricette, occorre cominciare, per esempio, da un radicale ripensamento dei processi educativi imposti dalla scuola e dalla famiglia.
Non si tratta di sostituire a sopraffazioni nuove sopraffazioni, ma di aumentare la ricchezza delle prospettive, disegnando itinerari in cui ognuno sia aiutato a crescere come espansione dell’essere, come arricchimento del sé negli altri, per una valorizzazione del sé e degli altri.
E siccome non vogliamo un mondo di donne aggressive e di uomini timorosi, in cui si scambi, con grande superficialità, il desiderio di uguaglianza con un desiderio di potere e di rivalsa, auspichiamo una reimpostazione degli interi processi formativi, per la costruzione di individui plurali e singolari, in cui la diversità si trasformi in ricchezza per la costruzione di una nuova cultura come tensione ideale, come atto di volontà e come sfida del sogno sulla realtà.
Si tratta di scompigliare il mondo e ricostruirlo in nuove cornici di senso.
E come? tornando al passato, a quella meravigliosa metafora forgiata da Leonardo da Vinci che è la “divina proporzione”:
La “divina proportione” si ottiene quando una linea viene divisa in un punto in due segmenti diseguali, in modo che il rapporto tra il minore e il maggiore sia pari al rapporto tra tale segmento maggiore e la linea intera iniziale.
La collaborazione tra Luca Pacioli e Leonardo da Vinci (insieme) rappresenta la nuova visione della cultura che si stava formando in quell’epoca, prendendo in prestito ciò che avevano elaborato Platone, Euclide, Paolo Uccello…
Il matematico aiutò l’artista fornendogli una esaustiva spiegazione degli “Elementi” di Euclide, che Leonardo fuse con gli insegnamenti prospettici appresi dal Verrocchio e dai trattati dell’Alberti e di Piero della Francesca
Forse una risposta è nella sfida dell’ambiguo sorriso della Gioconda che invita proprio ad andare oltre…Certo non è facile procedere insieme e con creatività, ma qual è allora il compito dell’arte e della cultura?
Riteniamo che i percorsi della vera emancipazione si basino sulla continua ricerca di nuovi significati dell’identità in questa bella, mutevole e “insostenibile leggerezza dell’essere”.
E allora forse dovremmo tutti e tutte imparare un po’ a pensare da poeti, con quel pensiero, lieve e attivo, capace di catturare il mondo per trasformarlo con la sua eterea carica eversiva.
Ricordando uno dei più famosi insegnamenti di Bauman:
La vita è un’opera d’arte
Zygmunt Bauman