Chi sono?
Da fiaba agisco esseri fantastici, straordinari, mostruosi o leggiadri, secondo come mi piglia, comunque affascinanti: favolosi appunto.
Da favola mi diverto ad animare cose e animali: li faccio muovere, parlare, ballare e cantare.
A mio piacimento.
Quando sono nata?
Che domanda… qualcuno potrebbe dire con Esopo o Fedro.
Ma loro mi hanno soltanto imprigionata nella scrittura, mentre io volavo da tempo immemorabile sulle labbra di abili narratrici.
Sono nata quando qualcuno ha avuto qualcosa di importante da dire e quindi sono nata con la parola. Sono una che racconta storie, per questo non sono stata mai presa sul serio.
Mi sono sempre cibata del tepore dei fiati di corpi vicini, di corpi che sanno dare e ricevere cura.
E sono una donna di grande volontà, come tutte le mie sorelle sparse per ogni dove in ogni tempo.
Amo la voce, purché sia presente e non si consumi nello stridore.
Amo il sussurro, il bisbiglìo, il mormorio, mi cibo dell’onomatopea.
Le mie storie si odono, non si ascoltano: solo così si possono cogliere le sonorità più vellutate della voce. Ho un’estetica tutta mia.
E vado alla ricerca di sonorità perdute: i versi degli animali, il suono delle campane, il frinire delle cicale, la grande musica dei venti e dei mari.
So essere ripetitiva senza essere monotona.
Ma non amo il rumore.
Se urlo è per il dolore, lancinante, come quello della vita, che ti colpisce quando meno te l’aspetti, ma subito cerco il lamento che lenisce: amorevole, capace di tingere il grigio con sfumature perlacee. La mia norma di stile è l’arte del parlare a bassa voce.
So essere grifagna, ma per fortificare nelle paure.
So essere malinconica, ma per estrarre la soavità dalla malinconia.
Il mio terreno è lo straordinario, l’irreale, il suggestivo, la reverie, il sogno.
E come nel sogno le mie atmosfere non disdegnano né l’incubo né l’orrido.
Affatturo e ammalio con fate e streghe, folletti e orchi, elfi e chimere.
Abito sontuosi castelli o infime capanne: non mi piacciono le mezze misure.
Molti mi rimproverano di non raccontare mai la verità, di non saper neppure dove sta la realtà… Ecco vorrei chiederlo proprio a loro: qual è la verità? dove sta di casa la realtà?
Se ha a che fare con il cosiddetto senso comune, non mi interessa: è sempre mediocre, squallido e tristarello.
Mi fido di più dell’immaginazione e della fantasia: amo astrarre dalle cose le apparenze, dai fatti i sogni, dalle certezze i dubbi, dall’ovvietà l’insolito.
Ho una logica tutta mia, ma a molti sembra bizzarria, talvolta vera pazzia.
Al concepibile preferisco l’inconcepibile. Amo spingere il possibile fino all’assurdo.
La normalità non è mai stata la mia dimensione. Alla norma, preferisco l’eccezione.
In oriente ho trovato Sherazade.
In occidente tante raffinate scritture che mi hanno nobilitata in vesti letterarie.
Racconto misteri per abituare a decifrare i misteri dell’esistenza.
Racconto paure, per esorcizzare le paure della vita.
Racconto burle, per coltivare l’ironia.
Racconto l’inverosimile, che qualcuno chiama fandonia, ciancia, panzana: non crederai nelle favole… son capaci di dire. E i primi a crederci sono proprio loro.
C’è chi dice che io sia fatta per i bambini, ma si sbaglia, sono per i bambini di tutte le età.
Sono rari, ma ci sono e ci sono sempre stati.
C’è chi mi chiama favoletta o favoluccia, con tono un po’ dispregiativo, ma qualcuno molto bravo mi ha addirittura identificato con la vita: la mia favola breve è già compiuta! Ebbe modo di scrivere un tal Petrarca Francesco.
I miei personaggi sono fantastici, misteriosi, talvolta capaci di diventare mitici e leggendari.
Ma non mi sono mai montata la testa: non sono mai stata un pezzo da novanta.
Ho per parenti nobili l’inno e il poema.
Io raramente offro letteratura o retorica.
Offro appartenenza: elementare, semplice, scontata.
In questi tempi, vi sembra poco?
Tempi di voli pindarici verso il grande nulla.
Pochi conoscono il sapore delle loro radici.
Però ho i miei favolisti.
Ho partorito perfino il favolello con versi ritmati, vivaci e non certo semplici, ma profondi e arguti.
Favoleggio per la gioia dei favoleggiatori e dei favolofili.
Amo lo straordinario, il fantastico, il meraviglioso, l’incredibile.
Ho generato la favolistica, addirittura una disciplina, anzi una cultura.
Insomma sono fiaba e basta, sono una storia da raccontare.
Semplice e chiara?
Mai stata.
Ho sempre amato cacciare sotto apparenti banalità, profondi valori che pochi sono stati capaci di decifrare.
So essere allegorica ed erotica, ma anche pastorale e georgica, venatoria e boschereccia, addirittura peschereccia… perfino parabolica.
La morale?
Ma quale morale! Ne ho sempre vista poca in giro.
Certo anch’io ho i miei princìpi, principi e principii.
C’era una volta, per esempio: c’era e basta. Per favore non chiedetemi né dove né quando.
La geografia non mi è mai interessata, men che meno gli anni: in poco diventan secoli e millenni… il tempo non sta mai fermo. Ve l’assicuro.
Grandi scrittori si sono con me cimentati e intellettuali di ogni tipo sono sempre pronti a studiarmi.
La morale della favola è diventato un luogo comune.
Adesso mi hanno ridotta che non vi dico: dopo avermi fatto voce meccanica imprigionandomi in un nastro, sono diventata pure cd e dvd.
Nel libro però mi son sempre trovata bene, ben accolta e vezzeggiata con colori e disegni fantastici, e anche nella musica mi sento valorizzata, ma ora sono un po’ in imbarazzo con i videogame e le playstation.
Qualcuno sentenzia che sono sempre stata un ponte fra la realtà e la fantasia e adesso fra il reale e il virtuale, ma non riesco a capire bene chi siano e cosa facciano Skylanders, Spyro, Gill Grunt, Trigger happy, Eroptor…
Chissà se anche loro vivranno felici e contenti?
…e vissero felici e contenti!
A questo punto la voce di qualsiasi narratore si fa euforica e un po’ esitante. Si fa presto a dirlo, ma il sospetto viene: per questo dopo felici c’è stato bisogno di un rafforzativo. Ma chi è felice può non essere contento di essere felice?
Tutti hanno sempre saputo che non era così, né lo sarebbe mai stato, ma hanno fatto finta di crederci. E’ una speranza, un auspicio, con qualche presentimento, senza voler essere presagio.
Flagrante complicità: sono parole banali e abusate, ma dense di un fascino incantatore.
Sono parole dolci e caramellose, sono parole leggere e cristalline, appena appena tinte di chiaro: giacinto, violetta, mela verde… come le mentine delle fiere.
Sono parole di vetro filato, friabili e flessibili, si rompono alle prime difficoltà della vita.
Sono parole che stanno lì per non essere usate, come le gondole in miniatura o i david o le madonnine che si accendono…
Sono linfa vitale per bambini e adulti smarriti.
Sono litanie da ripetere nei momenti bui della vita. E chi non ce l’ha, non ha nemmeno quelle.
Sono modi di pensare al futuro senza consapevolezza del passato.
Scandiscono chiazze di tempo nella spaventosa riproducibilità della sorte.
Tutto finisce e non sempre vivremo felici e contenti.
Io comunque ci sono e non finisco mai.
Favoleggio, nell’infinità dei tempi e degli spazi, alla ricerca di chi si lasci avvolgere dalla mia favolosità.