Per la serata finale del Convegno “Risorgimento: Donne Protagoniste” Sandra Landi ha inteso sottolineare il ruolo sostenuto da colei che è conosciuta come la Contessa di Castiglione. Dopo tante figure femminili edificanti, che sono state celebrate nelle relazioni ufficiali, ha voluto evidenziare il suo fascino e la sua cultura scrivendo un monologo.
Io sono Virginia Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria… vi par poco?
Sono la “divina Castiglione”, la donna più bella del secolo (con compiacimento): affascinante, intelligente, colta e scaltra, abile e seducente, eccentrica e capricciosa…
Audace, altera e superba (risata), quante ne dicono di me: è il mio carattere fiero, franco e libero, che mi fa essere talvolta nuda e cruda….
Nuda? Mi è sempre piaciuto far immaginare, accendere la curiosità, punzecchiare, provocare… piuttosto che far vedere.
Che arte, l’arte del vedere e non vedere! le sottovesti, per esempio… non una, ma dieci, venti, cento sottovesti nel gioco sensuale delle trasparenze: sete e crinoline, tessuti impalpabili che accendono il desiderio.
I mutandoni?! (risata) calze di seta e giarrettiere rosse, nel paesaggio di lenzuola nere o violette o verde acqua, come la mia fedele alleata: quella camicia da notte di Compiègne…
Mi sono sempre divertita con pizzi, piume, trine a scritte ammiccanti…
(rivolgendosi a uno del pubblico)
“Non credo che la vostra fantasia riesca a farvi immaginare la mia persona al di là dei vestiti. Essa è troppo bella e perfetta per la vostra immaginazione. Le forme di una fiorentina di antica stirpe superano ogni vostra comprensione”
Sono la contessa di Castiglione Tinella e Costiglione d’Asti, nata Oldoini Lamporecchi! (con eccessivo compiacimento)
In me arde Firenze, ma è il Golfo di Ariel, Il Golfo dei poeti, che mi ditta dentro
La divina, la Pompadour imperiale… in quanti modi mi hanno chiamata…
Ma sono “Nicchia”, per i più intimi, Nicchia, come mi chiamò D’Azeglio, Nicchia per chi mi vuole bene davvero… sì, mi sento conchiglia, nicchia, come si dice a Firenze, pronta ad accogliere, allettante, affascinante… e poi zac, lesta a chiudersi, come una nicchia.
“Io sono io, e me ne vanto; non voglio niente dalle altre e non faccio niente per le altre. Io valgo molto più di loro. Riconosco che posso non sembrare buona… il mio carattere è fiero, franco e libero. Così qualcuno mi detesta; ma ciò non mi importa non ci tengo a piacere a tutti”.
Mi basta piacere a chi voglio IO!
Me ne hanno dette di tutti i colori: la personificazione (scandendo le sillabe) della vanità femminile…
La vanità: la vanità è femmina, si dice… ho provato a diventare un’orsolina, ma non avevo la stoffa della mangiaostie, la modestia non è mai stata il mio forte: come posso ricacciare l’orgoglio per la mia persona, nella moderatezza: ma chi è che stabilisce la misura?
Io dovrei essere ossequiente, umile e vereconda, modica e mediocre per far posto all’altrui superbia! alla sicumera degli arrivisti!
Sì vanità è femmina, ma la superbia è maschia.
Guardate il mio famoso cugino…
Il gran Camillo, per superbia, non esitò neppure a mettere in discussione perfino la mia bellezza:
Legge da un foglietto che tiene in borsa
“illustrissima signora contessa, la vostra collaudata beltà mi rese voglioso di vedervi, ma non vi trovai tanto di esimia bellezza da paragonarvi ad una venere; nel numero delle belle certamente potreste occupare il seggio primiero ma non più oltre. Lasciatevi pur vedere ovunque che nessuno vedendovi vi torrà i vostri pregi di rara bellezza e ve ne sono altrove delle migliori di voi di gran lunga.”
Ma passò presto al rispetto, e ritenne fosse giunta l’ora di inserirmi nelle sue trame segrete.
«Cercate di riuscire, cara cugina, con il mezzo che più vi sembrerà più adatto, ma riuscite!»
Camillo, il tessitore: ragno lardoso, ragna e sdiragna, tarantola e scorpione, grasso e lardoso, tondo anche negli occhiali…
Legge dal foglietto
“Una bella contessa è stata arruolata nella diplomazia piemontese. Io l’ho invitata a civettare, se le riesce, a sedurre l’imperatore. In caso di successo le ho promesso che chiederò, per suo fratello, l’incarico di segretario a Pietroburgo. Ieri con discrezione ha cominciato la sua missione, al concerto delle Tulleries”
E non mi fu certo difficile diventare “l’amica del re”, – se le riesce! – fu un trionfo alle Tulleries!
Amica! Cosa vuol dire AMICA: fedele… devota amorevole… alleata, ecco alleata mi piace di più.
Sia chiaro: io do i miei favori in cambio di favori.
E ci devo guadagnare: IN OGNI SENSO.
A Parigi fu facile farmi notare, anche da Eugenia, la bigotta “non lo fo per piacer mio ma per dar dei figli a Dio!”
Vita è quando la mangi e la bevi, quando ti ubriachi di azzurri e di emozioni forti… quelle che ti arrestano il respiro.
Una “statua di carne”, mi definì, certo con un po’ d’invidia la principessa di Metternich.
Ma si fa presto a passare da statua di carne a carne da macello…
E non mi è mai piaciuto nemmeno essere una statua: il marmo imprigiona l’anima.
Dicono che anche le mie mani siano seducenti e i piedi magnifici.
Certo: io amo ogni parte del mio corpo.
Avete mai pensato quanto possano essere sensuali, erotici… i piedi?
“Occhi di intenso verdazzurro, dalle sfumature ametista, risplendono anche nel fuoco della passionalità più violenta” (risata ironica)
Ma molti non hanno capito che a volte tradiscono una mente lucida e fredda.
Prende uno specchio e si guarda
Specchio infingardo quando rimanderai il disfacimento del mio volto, non ti vorrò più, ti coprirò di neri veli, ti distruggerò perché tu non distrugga il mio volto, la mia cavalcata di capelli ribelli e domi solo alle mie mani, sciolti di voglia come cavalli in corsa, come onde marine in lotta col vento. Vibrano del mio impeto, spandono energia spumeggiante e tempestosa.
Scarmigliati, ad arte scarmigliati.
Ho imparato presto ad avvolgere fili sottili per tessere reti di desideri, ordire speranze e intrecciare destini.
Ostinata e fragile, come la luna.
Nel suo etereo occhieggiare e permanere, nonostante il sole.
Adesso sto qui, giorno per giorno, a catalogare l’esistente per tentare di capire.
Non solo le cose devo capire, ma il perché delle cose.
E’ come se loro, i miei ricordi, mi annebbiassero la vista.
Ma ne conservo ancora il sapore, sanno di fragole e di rosa canina, e quando l’assaggi, lasciano un retrogusto asprigno. Indimenticabile.
Come il profumo di rose della camicia verde acqua che velava le rotondità del mio corpo, quella notte.
Sì, mi bastò una notte per incantare quel povero cinquantenne che la sorte aveva chiamato re.
E’ il brusio della storia a farmi stare sveglia, il brusio della storia con tutti i suoi ricordi.
Si fa presto a dire storia, a volte la storia ti trascina dove vuole e ti frana addosso…
Non la contrasto più, ho imparato ad adagiarmi, a lasciarmi trasportare dal tempo che pur mi scolpisce, impietoso, rughe sempre più profonde.
Sarà meglio la difesa o l’attacco?
E allora mi metto lì e cerco di acchiapparli, i ricordi.
Con ostinatezza, con cocciutaggine. Ma non c’è niente da fare: sguizzano come pesci.
E allora cerco di isolarli: li prendo e li separo a forza l’uno dall’altro, perché, insieme, non aumentino di peso.
Ma è una battaglia inutile, tanto vincono loro.
Lo so e l’ho sempre saputo.
Così, mentre il silenzio interiore scivola sulle cose, tutto si fa muto e impenetrabile.
Senza senso.
L’abisso si allarga, sfumano le pareti.
Non più un refolo di Luna.
Eppure era da Te che vivevano, i miei sogni.
Talvolta avrei voluto gettarmi in quella farandola di nubi, azzurrognola e fragile, ma protettiva.
Però anche Tu, al momento del bisogno, te ne stai rinchiusa in un mutismo cocciuto, eterea e trasparente, lontana e inutile… Sì, inutile, lasciatelo dire!
Puoi anche smettere di luneggiare dietro quelle nubi di mussolina gentile.
Anche solo per rispetto!
E allora ho imparato a coccolarmela questa solitudine: l’accarezzo, la vezzeggio, la blandisco.
Così, mentre il silenzio interiore scivola sulle cose, tutto si fa muto e impenetrabile.
Senza senso.
Nel chiarore dell’alba nasce, silenziosa, la prima parola del giorno
Ma è così instabile, quel cielo, che sembra scivolare addosso alla terra sfuggendo qua e là, come una sciarpa di seta. (Canticchia)
… la contessa riposa
su un letto di fiori e di trine,
colei che fu Aspasia e fu Frine,
giglio, anemone e rosa
Virginia non amò altri che se stessa…
Così dicono…
E adesso mi domando se quel che ho fatto sia servito.
Mi domando se le altre verranno, se risponderanno all’appello.
Confido nel cuore delle donne, confido nella loro risolutezza, e so che verranno.
Busseranno alle porte e offriranno quel che possono, come possono.
So che verranno, consapevoli della fatica che le aspetta e non ne sentiranno il peso.
Vogliono far parte di questo grande cambiamento, sopporteranno la maldicenza di chi le vuole rinchiuse nelle stanze a ricamare merletti.
Io non ho mai amato l’ago dei merletti, ho amato i merletti… è forse una colpa!!
Ma eccole, stanno arrivando, le ceste piene di biancheria e di bianche bende.
Le guardo.
Guardo le loro facce.
I loro vestiti.
Le loro mani.
Stanno arrivando
In vestiti d’ordinanza
In vestiti d’eleganza
Tutte INSIEME
Quelle che fanno i merletti e quelle che portano i merletti…
Sono donne: madri mogli sorelle figlie
Sono donne d’ Italia
E sono pronte
a lenire le ferite
a curare il male di ogni uomo
Perché ogni uomo è il padre, ogni uomo il marito, ogni uomo il figlio,
il fratello, l’amico, l’uomo amato
e anche il nemico
perché nella sofferenza esiste soltanto l’uomo.
Vedo le bende bianche che si tingono di rosso.
Il sangue scorre da tutte le parti.
I feriti giacciono smembrati e sofferenti.
Le donne arrivano, li sollevano, li lavano, li fasciano.
Tutte ugualmente veloci.
Tutte ugualmente capaci.
L’arte del fasciare è arte antica per qualsiasi donna.
Queste donne, oltre alla fatica affrontano, come me, l’ingiuria e la maldicenza.
Lavorano giorno e notte e nella notte la luna illumina i loro volti.
La Luna, ancora lei.
Gli occhi sembrano più grandi e più profondi, tesi nello sforzo di tenerli aperti, per assolvere al meglio il loro compito.
Queste donne sanno che oltre al tampone e alla sutura, al malato occorre il sorriso e con esso la speranza.
Ma c’è chi ha paura della bellezza più che dei pugnali
paura della bellezza di questi volti che brillano nel chiarore della luna,
paura di quello che queste donne sono capaci di fare, perché sanno che molte hanno copiato dalla rosa non solo la bellezza ma anche la sua arma di difesa: la spina.
Hanno imparato a infilare pugnali nelle giarrettiere.
Come allora racchiudo il dolore dentro le vesti, e vado avanti.
Vado avanti con i miei capelli sciolti, liberati da ogni laccio
Farò come allora, convertirò in indifferenza il risentimento
perché la cura della mia patria è la cosa a cui più tengo.
Ci sarà una comunione tra uomini e donne tutti uguali, in una patria chiamata Italia? Una nazione dove ogni persona, uomo o donna che sia, potrà scegliere il proprio lavoro, la propria vita?
Ma qualcuno ha paura di questo domani
di quando ogni uomo e ogni donna conoscerà l’arte dello scrivere e del pensare.
Ma più di tutto fan paura le donne.
Da qui io le guardo: farfalle che si posano sulle ferite, instancabili, tenaci, piene d’amore.
La luna, questa meravigliosa luna incantatrice, le illumina il volto.
Ma c’è qualcuno che ha paura della luna.
Di quell’ostia bianca appesa nel cielo scuro della notte.
Di quell’ostia bianca che non possono toccare, che nasconde misteri che non riescono a svelare.
Hanno paura della luna…
della luna e delle farfalle perché non le possono afferrare.