Come visitare senza risparmio la “Terra dei Visi Bruciati e dei Mille Sorrisi”
Etiopia from Sandra Landi on Vimeo.
Shirin, Shirin, Shirin. Macché! Di Shirin neppure l’ombra. “O’ ndo sarà ita?” Poi scopro che si è diretta in Senegal, Paese che intende includere nel suo catalogo-viaggi, quello della Shiraz Travel, al quale spesso ci siamo affidati per orientarci e dunque organizzare alcune delle nostre, meravigliose avventure. A proposito: conoscete tutti la simpatica signora Shirin? E’ la manager assoluta della mitica Agenzia di Via Tito Omboni in Roma, la “Shiraz Travel”, appunto. E sapete perché è in Senegal? Perché ha constatato che Alfiero e Sandra stanno per esaurire l’elenco dei Paesi dove si indirizza l’offerta della “Shiraz Travel”. E allora non resta che allargare il numero delle opportunità, anche se il Senegal è già compreso nell’elenco dei Paesi visitati, per merito di un gemellaggio fra la Provincia di Firenze e la città di Thies, dove ebbi occasione di recarmi, in visita ufficiale, nel dicembre del 1997.
L’amica Shirin è insistentemente ricercata, perché alcuni componenti dello storico gruppo viaggiante ambirebbe azzardare uno scorcio della mitica terra etiopica. Mitica e insieme abbastanza “caruccia”, almeno da quanto si può riscontrare consultando gli usuali cataloghi. Ma la Shirin tiene troppo alla nostra disponibilità e amicizia e dunque si presta a condizioni eccezionali, tali da farci decidere positivamente, ponendoci tuttavia la condizione di accogliere nel gruppo due illustri signori: un professore in chimica, di nome Tommaso ed uno sperimentato archeologo, di nome Roberto. Va bene Shirin, affare fatto! Il gruppo sarà così composto da dieci: insieme a me e Sandra, anche Eva e Giuseppe, Carla e Gigi, Antonia e l’imprevedibile artista Niccolò, valdelsano d’origine (di Castelfiorentino), poi migrato in quel del Mugello, esattamente a Vespignano, patria di un certo maestro di nome Giotto. Posto davvero impegnativo per un artista!
L’occasione per la definizione di ogni accorgimento programmatico è data da un impareggiabile pranzo che Antonia organizza intorno a metà dicembre, fornendoci così anche l’occasione per scoprire profonde e familiari amicizie comuni fra me e Niccolò.
26 dicembre
Dunque, pronti e via, a metà pomeriggio, in modo da raggiungere Fiumicino, come previsto, alle 21.00, con il comodo pulmino che ancora una volta l’amico Denio si è prestato a prenotarci. L’aeroporto è pressoché vuoto; si respira un clima di autentica rilassatezza post natalizia. Anche gli aerei sono stanchi e partono con ritardo, per quanto il nostro di soli 40 minuti. Giusto il tempo per propiziare conoscenza ed amicizia con l’inedito compagno Roberto, nonché ri-confondere quella con lo sperimentato Tommaso, già composto componente del gruppo che qualche anno fa visitò la Libia.
La notte scorre tranquilla, insieme ai nostri sogni rilassanti, che ci accompagnano fino allo scrutare dell’alba, ormai in terra etiopica, anche se l’atterraggio a Addis Abeba è poco prima delle 9.00. Poi, una lunga coda per gli estenuanti controlli di frontiera ritarda il nostro incontro con il pronto Feleke, che paziente ci attende per condurci allo Jupiter Hotel, dove ci è concessa una breve pausa ed un rapidissimo pranzo, prima di prendere confidenza con Addis Abeba, che tradotta significa “Nuovo Fiore”.
27 dicembre
Sono oramai le 14.00 quando completiamo la raccolta del gruppo, pronto per procedere verso la visita del Museo Nazionale, la prima scommessa con l’Etiopia, anche perché ospita la famosa Lucy, il più antico scheletro completo di ominide fossile che sia giunto fino a noi, una specie di mezza scimmia e mezzo essere umano, non più alto di un metro, che camminava in posizione retta. Scoperta e battezzata nel 1974, comodamente addormentata da più di 3 milioni di anni nella sabbia del deserto di Afar, nella valle dell’Awash. Una donna, dunque, sta agli albori della civiltà, così come è per merito di questa epoca che l’Etiopia passa per essere la “Culla dell’Umanità”; proprio p qui è stato fecondato il genere umano, qui ha avuto origine la nostra storia. Siamo giunti nel cuore del Mondo, noi esseri umani potremmo provenire tutti da qui ed essere, dunque, tutti africani. Qui tutto è speciale, unico, diverso, esclusivo: sono tredici i mesi dell’anno, dieci le note musicali e l’ora del giorno e della notte è in continua mutazione.
Ma il Museo raccoglie anche collezioni uniche riferite ai periodi pre-aksumita, aksumita e salomonico, che concentrano l’interesse di ognuno, anche se in particolare del nostro esperto archeologo Roberto. Feleke si distingue subito per essere un’ottima guida, capace di trasportarci lontano nei secoli per farci apprezzare l’origine della storia, appunto, dell’Umanità.
La tappa successiva è dedicata a uno dei musei più significativi dell’Etiopia: l’etnografico, adagiato sull’alto di una spaziosa collina, dalla quale si domina la vista sull’intera Addis Abeba, dove non a caso ebbe residenza l’imperatore Hailè Selassiè. Contiene collezioni molto originali, con tipici manufatti artigianali che ripercorrono l’intero ciclo della vita, fino ad illustrare sapientemente la storia dei tanti popoli che hanno padroneggiato l’Etiopia, ognuno caratterizzandola con l’originalità della propria cultura.
Meriterebbe dedicargli più tempo, ma si accusano alcuni segnali di stanchezza, tanto che Eva e Giuseppe tornano in hotel, mentre noi ci ripariamo in un ottimo ristorante, anche se sono appena le 18.00. E’ questa l’occasione per approfondire la conoscenza con Roberto e migliorare quella con Niccolò, che d’ora in poi assumerà il ruolo di riferimento per indagare al meglio tutta la storia degli affreschi che caratterizzano le chiese scolpite del nostro percorso.
Il clima, generalmente mite, sta per irrigidirsi un po’, così come farà ogni pomeriggio dalle 17.00 in poi, mentre ideale è la temperatura fra metà mattinata e metà pomeriggio, con punte che raggiungono, piacevolmente, anche i 27-28 gradi.
Si rientra intorno alle 21.00, con una breve sosta nella hall per concordare con Feleke le modalità della partenza, assolutamente mattiniera, ad un orario tale che ci impone di prenotare la sveglia alle 4.30.
28 dicembre
Sveglia puntuale, una rapida colazione e subito in pullman per raggiungere l’aeroporto e decollare alle 7.30, diretti a Lalibela, prima tappa della “Historic Route”, che scorre attraverso una terra di incanto e di meraviglia. Tutto in corsa forsennata, ma verso un appuntamento unico, irripetibile. C’è chi si chiede cosa abbia rappresentato Lalibela nel viaggio in Etiopia. Io sono solito rispondere che di fronte a tutto ciò che è “unico” non si può che restare estasiati. E’ il caso di Lalibela, la città santa, la nuova Gerusalemme, che prese il posto di Axum. Voluta dal re Lalibela, il re mistico, costruita fra il 1190 e il 1225, bucolica quanto grandiosa, è copia della monumentale Gerusalemme proprio perché non restava facilissimo raggiungere la vera, troppo lontana, città santa. Una delle otto meraviglie del Mondo, una serie di Chiese dall’inimmaginabile bellezza, magicamente intagliate nelle rocce, capaci di profondere un vero e proprio spettacolo biblico.
Fu Francisco Alvarez, il portoghese che per primo ci presentò l’opera di Lalibela. Siamo nel 1521, ma bisognerà attendere la metà del secolo scorso prima di poter contare su ragguagli storici attendibili. Un borgo intrigante, posto su un altopiano di 2.600 metri di altezza, dove le chiese rupestri, le più famose dell’Etiopia, sono letteralmente scavate nella montagna, raggiungibili attraverso un percorso labirintico e reticolare.
Siamo all’interno di una natura assolutamente vergine, rigogliosa e di innegabile maestosità, tale da farci rivivere le emozioni dei primi esploratori.
Il nostro primo impatto con Lalibela si ha con la chiesa di Na’akuto La’ab, esattamente incastonata nella roccia, qualche chilometro prima di raggiungere la città. Un esempio semplice, ma utile per la presentazione dell’intero sistema e soprattutto custode di numerosi tesori sacri appartenuti al suo fondatore. Un approccio incoraggiante, che sollecita ulteriormente le nostre bramose curiosità. Appena qualche chilometro e siamo al centro dell’abitato… e siccome oggi (come quasi sicuramente ogni dì) è giorno di mercato, non guasta dedicargli una prima visita. Un mercato assolutamente autentico, dove ogni mercante dispone soltanto di qualche misero prodotto, principalmente alimentari: agli, peperoncini, pomodori, patate. Sì, ha proprio ragione Niccolò quando esclama che questa non è altro che “Africa vera”.
I vicoli, che si intrecciano senza rispettare alcun ordine (non è stato certamente ancora approvato alcun Piano Regolatore … e chissà se lo sarà in futuro!), si presentano come abbandonati a se stessi, vivacemente animati dall’avvicendarsi di flotte di comuni mortali, dove domina il sorriso degli occhi splendenti, specialmente degli ignari bambini. Occhi grandi, occhi profondi e infiniti come appartenessero all’Universo, occhi che sembrano custodire leggende, capaci di regalarti, gratuitamente, emozioni.
Ci si attarda per qualche decina di minuti, fino ad attraversare la zona dove si sta ristrutturando l’asse portante della strada centrale, attraverso un cantiere fatto esclusivamente a mano, dove sono impegnate una quindicina di persone e dove la direzione dei lavori è affidata a tre giovani, autorevolissime ragazze.
Più tardi si raggiunge l’Hotel Lal, dotato di un ampio parco, dove si riposa in attesa della consegna delle camere e dove Gigi disquisisce con Tommaso, Roberto e Giuseppe sulle caratteristiche delle molteplici varietà di piante che circondano l’Hotel.
Le camere della prima notte lasciano molto a desiderare (per non dire peggio), anche se tutto sarà rimediato per la notte successiva. Ma quel che conta è conoscere la città. Una breve sosta per il pranzo, che consumiamo insieme a vari racconti di nostre storie private e alle 14.00 si parte per la visita delle chiese del gruppo settentrionale. La prima è quella di Bet Medhane Alem, che tradotta significa “Salvatore del Mondo”, così come del mondo sembra sia la Chiesa rupestre più grande. Imponente e maestosa, è appoggiata su ben 72 colonne, egregiamente affrescata e decorata secondo le scene tipiche di questi esempi di chiese rupestri. Strettamente collegata è la Bet Maryam, che si raggiunge attraverso una galleria. La caratteristica più significativa è rappresentata dalle decorazioni del soffitto, mentre i capitelli sono come intagliati e impreziositi, anch’essi da scene particolarmente suggestive. C’è chi sostiene che si tratti della prima Chiesa costruita a Lalibela. E’ consacrata alla Maria Vergine, particolarmente venerata in tutta l’Etiopia. A qualche isolato è posta la San Giorgio, sicuramente la più suggestiva, una nobile scultura, esattamente scavata e circondata da un largo fossato. A strapiombo su un baratro, sembra inghiottita dalla terra, a pianta cruciforme, ricavata da un unico blocco di tufo rosato, lavorato dall’esterno all’interno. Si narra che durante la sua creazione, di giorno lavorassero gli uomini e di notte continuassero gli Angeli. La sua architettura, in stile aksumita, sprigiona una forza impressionante, squadrata a forma di croce. Presenta una notevole spettacolarità, specialmente quando si domina dall’alto, camminando sulla cornice del fossato.
A piedi si rientra, dunque, in Hotel, dopo aver attraversato il Rio Giordano, che divide le due Gerusalemme, quella terrestre da quella celeste. Prima di accomodarci per la cena, si mette in scena una perdente battaglia contro le numerose flotte di zanzare, che si sono letteralmente impossessate dei nostri poveri abitacoli, preannunciando l’avventurarsi di una notte inevitabilmente difficile e complicata. D’altronde, chi è vero viaggiatore (e noi lo siamo) sa perfettamente che simili disavventure fanno parte del gioco e sono assolutamente da mettere nel conto. Bando alle disperazioni, pertanto, e via al tavolo della cena, tutto sommato accettabile, specialmente la prima parte concepita a self-service. E poi, relax, chiacchiere, pettegolezzi, scambio di opinioni e impressioni, assolutamente condivise nel mettere in evidenza la spettacolarità dei riti riproposti, sia nell’architettura, sia negli affreschi delle chiese visitate.
E dopo una giornata iniziata con la sveglia delle 4.30, è giustificato scambiarsi la “buona notte” quando manca ancora qualche minuto alle 21.00, sperando sia davvero così.
29 dicembre
Il momento della colazione è sempre molto gradevole: è l’ora del risveglio, l’occasione per scambiare piacevolmente le sensibilità provate dall’avvicendarsi dei sogni, così come per precisare gli ultimi dettagli del programma giornaliero. Stamani è anche l’occasione per impadronirci delle nuove sistemazioni in camere assolutamente accettabili, dopo la complicata esperienza della notte appena trascorsa. Poi si esce da Lalibela, attraverso un paesaggio spettacolare, all’interno di una vallata avvolta dalle montagne dell’arido altopiano. Si prende la direzione verso la chiesa Yemrehanna Kristos, che si conquista dopo 40 chilometri di strada attorcigliata, attraverso una delle pochissime zone lievemente coltivate, fra i tanti terreni di scarsissima fertilità. Sono il frumento e le lenticchie che prevalgono su ogni altra coltivazione, come conferma il frequente riscontrare di primitive battiture del grano, aiutati da monotoni circuiti affidati alla lenta andatura di alcune coppie di povere mucche. La zona è singolarmente abbastanza produttiva, una di quelle dov’è possibile beneficiare di due raccolti, tanto che si è dotata perfino di un “attrezzato” molino meccanizzato, dove sono, ben ordinati in coda, alcune decine di clienti.
C’è bisogno di una sosta, sia perché incuriositi dall’operosità industriale del molino, sia perché vogliosi di distendere il nostro sguardo verso l’illuminante orizzonte che ci porta oltre le prime colline, facendoci immaginare l’incognito dell’oltre montagne, che di lì appresso si innalzano fino a svettare verso i 4.000 metri di altezza.
La chiesa, che si raggiunge a piedi salendo un’agevole scalinata, attraverso una rigogliosa boscaglia, è indubbiamente una delle più singolari, anche perché è costruita e non scavata. Lo stile è puramente aksumita e pare risalga addirittura a prima dell’era Lalibela. Particolari sono gli intagli e le decorazioni del soffitto, la lavorazione delle pietre e del legno, così come l’area retrostante dove sono deposte le ossa di innumerevoli pellegrini, qui sepolti.
L’autista del nostro pulmino è molto pratico, esperto e non a caso ha il compito di tirare la fila. Ce la fa quasi sempre, compresa l’escursione di questa mattina, accelerata con equilibrio, fino a consentirci di rientrare in tempo per consumare un lauto pranzo sui balconi di un panoramico ristorante, posto sulle colline prossime a Lalibela. Un menù niente affatto tipico, che propone come primo piatto una discreta pasta al forno.
C’è anche il tempo per conversare del più e del meno, per assillare l’amico Feleke con le più svariate domande indirizzate a soddisfare le nostre mille curiosità, così come c’è un po’ di tempo per trangugiare un caffè accettabile; intanto Niccolò avvia le riprese per sviluppare un simpatico ritratto di una certa Sandra, non facilmente condizionabile da pratiche esigenze di statuarietà.
Siamo ancora una volta al centro di un’area folta di numerose chiese; ne visitiamo un paio, particolarmente divertiti dallo scambio che riusciamo ad intavolare (giustappunto, dopo pranzo!) con alcuni loro custodi e in particolare con un sacerdote, disponibilissimo ad accettare qualsiasi tipo di foto, senza neppure escludere l’uso del flash, anche se quando viene usato da Gigi, Eva, Antonia, lui inforca simpaticamente un robusto paio di occhiali neri e si mette in posa, come se sull’attenti, naturalmente accettando che tutti noi si possa scoppiare in una fragorosa risata. E proprio per aggiungere simpatia a simpatia, chiedo ed ottengo che ci venga scattata una foto, avvinti in uno stretto abbraccio.
Una zona dove sono aperti quei pochi negozi di cui la città è dotata e dove Eva, Giuseppe e Sandra ne approfittano per l’acquisto di alcuni oggetti tipicamente decorati, mentre altri partecipano alla pratica delle donne impegnate a trasformare, attraverso strumenti manuali, il grano in farina.
Il tardo pomeriggio è riservato a un’eccezionale cerimonia: quella del caffè. La prima e non l’ultima, anche se questa risulterà la più rituale, proprio perché programmata esclusivamente per noi. Se ne incarica una giovanissima e bella ragazza, che con precisa delicatezza ci intrattiene per oltre un’ora, accomodati tutt’intorno in una specie di circolo, col pavimento cosparso di erba tagliata fresca, al centro del quale è posta l’attrezzatura per praticare l’intera cerimonia; in attesa ci vengono serviti svariati stuzzichini dei quali volentieri approfittiamo, mentre Niccolò preferisce cedere alla luminosità del volto e alla delicatezza dei gesti della ragazza, fino al punto di ritrarla in una fedelissima opera. L’esito di tutta l’operazione è straordinario, compreso ovviamente il risultato finale: il caffè, appunto, che ci gustiamo avvolti dal profumo degli incensi bruciati accanto alle tazze ben ripiene. Grazie, semplicemente grazie, con la fiducia che anche queste tradizionali modalità di intrattenimento possano incentivare una benché minima relazione di sviluppo di questa troppo stanca Etiopia.
Il programma sembrava promettere una giornata tranquilla, ma come spesso ci accade, si è risolta esattamente all’opposto. Meglio così! Anche perché così, rendendo intense le nostre giornate, si riesce a penetrare più direttamente e più intensamente le tradizioni, la storia, le prerogative di questi popoli, tutt’altro che di facile approccio. E poi, comunque, ogni giornata si conclude mettendoci tutti attorno a un tavolo, per riprovare la qualità tutt’altro che eccellente di pietanze ripetitive, ma anche e soprattutto per cogliere l’occasione di ragionare insieme sulle singolarità che hanno caratterizzato il nostro virtuoso peregrinare.
Lalibela non offre alcuna opportunità di svago serale, se non quello che stasera ci è proposto all’interno del nostro ristorante, dove ci intratteniamo attivamente in canti e balli, prima di riuscire a mettermi in contatto con la mia mamma, grazie alla gentilezza di una guida italo-etiope.
30 dicembre
Alle 6.30 si parte per raggiungere, nel pomeriggio, la città di Bahar Dar e il Lago Tana. Si percorre la “China Road” e si attraversano valli rurali decentemente coltivate, folte di abbondanti pascoli di mucche e somari, ben sorvegliati da nutrite squadre di guardiani che camminano sui lati della strada. E poi ancora tanta gente, che cammina accompagnandosi con il proprio immancabile bastone. Se ne va verso una qualsiasi meta, quale che sia, spesso raggruppandosi sulla base della loro appartenenza a tribù, rappresentanti di un villaggio o di una famiglia. Si dice che i pellegrini, partiti dal Lago Tana e diretti a Lalibela, possano impiegare anche 30 lunghi giorni.
Il paesaggio è molto movimentato, secondo un succedersi di piccoli canyon e colline terrazzate, attraversate da un selciato stradale spesso impervio e complicato dall’asperità del terreno, troppo spesso interrotto da cantieri disordinati che rallentano oltremodo il nostro e l’altrui percorso.
Ma noi, naturalmente, non disperiamo affatto, anzi, cogliamo l’occasione per dilungarsi in un’intensa e approfondita chiacchierata con Feleke a proposito del regime di Menghistu. E allora si scopre che suo padre era un fedele poliziotto, morto in guerra sul fronte della Somalia, così come si apprezza la lunga permanenza di Feleke a Cuba (Paese col quale l’Etiopia di Menghistu aveva intrattenuto stretti rapporti politici, economici e sociali), dove per ben nove anni, dal 1981al 1989, nell’Isola della Gioventù (isola che gli racconto di aver visitato) ha coltivato tutti i suoi studi di formazione superiore. Ecco dunque che anche gli imprevisti dovuti ad una cattiva viabilità possono servire per capire meglio i risvolti interni della vita di un Paese. Prendo l’impegno di approfondire la storia del regime di Menghistu (1974 – 1989), anche se intanto registro che si trattò di un regime capace di assumere importanti scelte di governo: nazionalizzazione delle banche, assegnazione delle terre ai contadini, forti investimenti sulla formazione.
Feleke ci racconta poi che la proprietaria dell’Agenzia Viaggi di Addis Abeba, corrispondente della nostra Shiraz Travel, non soltanto è un’italiana, ma addirittura una intraprendente fiorentina di nome Anna.
Ci concediamo una breve sosta per un caffè a Debre Tabor, una sosta che sarebbe stata davvero breve se il pulmino numero due non avesse incastrato una ruota in un fosso di cemento. Si riparte alle 12.00 e si raggiunge Bahar Dar alle 13.30, gradevolmente accolti da spaziosi viali, contornati da palme gigantesche e da parchi e giardini particolarmente lussureggianti.
Il primo pomeriggio è riservato alla visita delle cascate del Nilo Azzurro, che si raggiunge dopo aver attraversato lunghe distese di coltivazioni di canna da zucchero. E’ vero che siamo in tempo di siccità e che da qualche anno è stata costruita una centrale idroelettrica, ma lo scenario offerto è davvero deludente, anche senza provare confronti con altre cascate molto, ma molto più impetuose e dunque affascinanti. Peccato, anche se il richiamo resta forte (è in corso, stasera, una visita di ufficiali d’Egitto), se non altro perché è da qui che nasce il Nilo, un simbolo non qualsiasi per l’intero continente.
In serata, al rientro in città, ci concediamo una lenta passeggiata perlustratrice del centro, anche se il fascino più avvincente resta, ovviamente, il percorso lungo lago.
Ma anche per oggi il tempo è scaduto; non resta che una buona cena consumata al ristorante dell’hotel, dove ci vengono assegnate gradevoli camere.
31 dicembre
La partenza rispetta l’orario delle 8.00, per navigare in battello all’interno del Lago Tana, la cui massima attrattiva è data dalla visita degli spettacolari Monasteri, posti su ben 37 isole lacustri; una vera e propria frontiera del Cristianesimo, roccaforte dell’evangelizzazione cristiana, anche perché inaccessibile da parte dei Musulmani. Si è pervasi dal sottile misticismo che trapela. Non è un caso che proprio qui siano conservati archivi e manoscritti preziosi, insieme a molti oggetti di uso liturgico e civile, protetti dai cristiani, sfuggendo ai possibili saccheggi di musulmani e pagani.
Il primo approdo è riservato alla penisola di Zege, per visitare le chiese gemelle di Beta Maryam e Beta Giorgis, dotate di un prezioso museo. Per conquistarle serve attraversare un sentiero ben arredato da piantagioni rigogliose. E’ qui che (mentre Gigi si attarda a familiarizzare e fotografare alcune scimmiotte) esplodono dal bosco sul sentiero le tre “Bertucce” nostrane: Eva, Sandra e Carla; la prima non sente, la seconda non parla e la terza non vede. Si prosegue per visitare il più noto dei Monasteri, l’Ura Kidane Meret: gli affreschi testimoniano la raffinatezza di questa civiltà, accattivante spunto per il nostro Niccolò, che continua a dilettarci con le sue dotte, raffinate e precise dissertazioni, utilissime per apprezzare fino in fondo il significato di questa nutrita presenza di sedi sacre.
Il pranzo è consumato sul battello a base di qualche panino, prima di raggiungere l’agognata isola Dek. Il monastero da non perdere è quello di Narga Selassie, risalente al XVIII secolo, dove sulle pareti esterne sono scolpite le effigi dell’imperatrice Mentewab e soprattutto di James Bruce, l’esploratore scozzese che nel 1768 partì alla scoperta della sorgente del Nilo, lasciando pubblicato il resoconto del suo peregranare. L’isola è affollata da bancarelle di artigianato locale, dove nessuno manca di arricchire l’elenco dei propri souvenir e dove io e Sandra, con ben 10 birr (circa 60 centesimi di euro) ci impegniamo per il primo regalo al nostro tanto appassionatamente atteso Alex.
Si riprende la rotta e dopo un’ora e mezzo siamo a Gorgora, sulla terraferma, pronti a rilassarci con un caffè, che pago per tutti con la cassa comune, impegnando complessivamente “addirittura” 26 birr, ovvero “oltre” 1 euro e mezzo.
L’arrivo a Gondar è come previsto intorno alle 19.00. Si alloggia all’Hotel Quara, uno degli esempi più significativi dell’architettura coloniale italiana, dove impera l’assoluto ordine razionale degli spazi. Ci mettiamo in contatto con Silvia (che si sta preparando per la cena di San Silvestro) e alle 21.00 ci abbuffiamo al self-service per la nostra cena, sufficientemente ricca e varia, che ci accompagna per oltre due ore verso la fine dell’anno, che stabiliamo intorno alle 23.00, quando oramai stiamo per stramazzare. Il tavolo più ampio è occupato da un gruppo di italiani, dell’Università cattolica di Milano, con i quali animiamo l’intera compagnia, composta anche da altri compagni di viaggio e da una folta schiera di efficientissimo personale di servizio, davvero preciso e garbato.
All’esterno è stato allestito un vero e proprio impianto di fuochi d’artificio, destinanti ad allietare lo scenario della serata… e siccome nessuno si fa avanti, tocca a noi incendiare le micce, che scoppiano e brillano alte nel cielo, provocando una corale e simpatica contaminazione, sia di tutti gli ospiti presenti, sia dei numerosi cittadini in transito lungo il contiguo marciapiede.
1 gennaio
Gondar, dunque, una delle perle più significative dell’architettura etiopica, l’antica capitale fondata dall’imperatore Fasilidas agli inizi del 1600. Rinomato punto d’incontro delle grandi vie carovaniere, visse un lungo periodo di prosperità, durante il quale furono costruite imponenti chiese e castelli. A piedi si raggiunge il “Recinto” imperiale, attraversando la moderna città italiana e costeggiando le sue mura merlate, frammezzate da piccole torri eleganti. La prima visita è dedicata al palazzo Fasiladas, purtroppo spogliato dei suoi preziosi arredi, ormai scomparsi dopo aver abbagliato perfino il mitico James Bruce. Anche se è stato restaurato di recente, restano evidenti segni dell’attacco che gli Inglesi sferrarono contro il comando italiano, che proprio qui si era insediato durante l’occupazione, fra il 1936 e il 1941. L’intero “Recinto” costituisce una vera e propria isola, protetta da una lunga serie di mura merlate. Il palazzo contiene ancora tutto quanto era servito per caratterizzarsi come un vero presidio imperiale. E’ consentito accedere anche alle parti alte, dalle cui terrazze si dominano spettacolari scenari panoramici, fino ad intravedere le coste del Lago Tana.
La visita all’intero “Recinto” ci occupa, opportunamente, per l’intera mattinata, che scorre velocemente, insieme alle storiche disquisizione sulla presenza italiana a Gondar.
Il pranzo è consumato al ristorante self-service dell’Hotel, poi in fretta e furia si parte per la visita dei giganteschi Bagni di Fasiladas, già sede di particolari celebrazioni religiose e ancora oggi utilizzato, una volta all’anno (l’Epifania ortodossa), per la consacrazione della cerimonia di Timkat. La vasca sacra viene riempita d’acqua che un sacerdote benedice e dunque invasa da una folta moltitudine, sia di devoti, sia di semplici curiosi qualsiasi. La tappa successiva è riservata al complesso di Kweskwam, sulle colline prossime a Gondar, fatto costruire dalla regina Mentewab e dove la medesima si ritirò.
A metà pomeriggio ci è concessa, finalmente, una breve pausa ed è così che ci avventuriamo verso il mercato, dove ancora una volta non manchiamo di trattare forsennatamente per accedere all’acquisto di svariati oggetti di locale artigianato. Una parte del gruppo decide, invece, di riposare presso uno dei pochi bar accettabili, dove più tardi tutti ci ricongiungiamo e dove per rallegrare un po’ il clima sonnolento dei nostri amici etiopi decido di improvvisarmi cantante di opere popolari italiane. Un vero successo, fino al punto che Niccolò decide di mettere a disposizione il proprio cappello per raccogliere qualche obolo dai numerosi appassionati che fanno circolo intorno a noi. Non si trattò di un grande successo, dato che raccogliemmo 6 birr… e soprattutto dato che un solito furbacchione locale riuscì ad approfittarne, fino al punto di impadronirsi perfino del cappello che, appunto, Niccolò aveva disposto, probabilmente invaghitosi del suo colore verde, forse di ispirazione leghista.
Il pomeriggio si conclude con una simpatica visita del quartiere centrale di Gondar, proprio nei pressi del nostro Hotel, riuscendo così ad indagare più direttamente a proposito degli investimenti architettonici che l’Italia destinò a questa capitale, durante i pochi anni della sua presenza coloniale. Sì, è proprio così, il centro di Gondar porta forte il segno dell’impianto architettonico tipico della tradizione fascista e coloniale italiana.
Prima di tornare ai tavoli della cena contattiamo i nostri cari lasciati in Italia: Silvia e le mamme… e quando ci confermano che hanno trascorso un buon primo dell’anno, consumiamo più volentieri il pasto serale che, come ho già avuto modo di anticipare, risulta generalmente abbondante e di discreta qualità.
2 gennaio
Stamani si parte all’alba per affrontare l’itinerario più impegnativo e faticoso dell’intero viaggio. La direzione è verso Axum e la prima tappa quella del villaggio di Wolleka, dov’è insediata la comunità dei falasha, gli ebrei di Etiopia, ormai ridotti a poche centinaia, dopo il rientro in Israele negli anni tra il 1985 e il 1991. La visita non impressiona più di tanto, se non per alcune tipiche produzioni artigianali, soprattutto in ceramica, di livello tutt’altro che pregiato.
Di straordinaria suggestione è, invece, il paesaggio, che ci regala panorami di stupefacente bellezza, tra gole e rupi, picchi e strapiombi lungo i quali srotolano impervi tornanti. E poi le colline, come composte dal susseguirsi di placide ebollizioni, quasi mormorassero dei ritmici “plof”, “plof”. Strane forme e colori cangianti a seconda dei riflessi della luce, lungo un percorso di contrasti e sorprese, di luoghi remoti e servaggi.
La strada principale è ancora quella costruita dagli italiani oltre settanta anni fa e soltanto adesso pare stiano improvvisando lavori di miglioramento, fino a programmarne l’asfaltatura. Oggi si presenta ancora sterrata e polverosa, colorata da terra rossa, dove hanno la meglio veri e propri battaglioni di asini, decisamente piegati dal peso di gravosi carichi, unici garanti del trasporto merci, insieme a lunghi flussi di pedoni, che a piedi nudi camminano instancabilmente a passo docile e ondeggiante.
Si attraversa il parco dei Monti Simien, purtroppo senza dedicargli il tempo che meriterebbe. E’ un peccato, ma la strada per Axum è ancora troppo lunga e non resta che un brevissimo tempo per una rapida consumazione nella minuscola cittadina di Adi Arkay, storicamente famosa soltanto perché conosciuta come la città italiana.
E’ qui che tento di inscenare una rissa con un signore di mezza età, che si sta permettendo di prendere a calci, irragionevolmente, alcuni ragazzini, colpevoli soltanto di aver chiesto ed ottenuto di consumare i residui del nostro pranzo pic-nic. E’ vero che tutti i bambini chiedono, così com’è vero che prima di imparare (studiando l’inglese) la traduzione della loro presentazione (my name is…), imparano la richiesta (give me…), seguita da “birr”, “pen”, od altro ancora. Sì, tutto questo è vero, ma possiamo incolpare questi poveri ragazzini? Assolutamente no!
A metà pomeriggio, dopo aver riparato la gomma forata del pulmino n° 2, si accede alla regione del Tigrai, attraversando una sorta di dogana, segnata da una semplice corda, che però si abbassa soltanto previa liquidazione di una tassa.
In tarda serata si raggiunge, particolarmente provati, l’attesa Axum e prendiamo posto all’Hotel Yeha, sulla panoramica collina dalla quale si domina letteralmente l’intera dimensione della città. Lo stato di salute del gruppo non è dei migliori: Sandra e Carla non stanno benissimo, Antonia accusa una crisi … mentre, per fortuna, si sta ristabilendo Eva. E se le camere lasciano un po’ a desiderare, i servizi collettivi (sala ingresso, terrazzo, sala pranzo) sono invece di ottima qualità, così come anche i piatti con i quali ci attardiamo per una cena tanto attesa, quanto ben combinata e servita.
3 gennaio
Axum, la capitale del regno della regina di Saba, già nel X secolo a.C. La leggenda vuole che la regina Makeda abbia deciso di recarsi in visita da Salomone, il saggio re d’Israele, che usando una semplice astuzia, avviò una vera e propria storia d’amore, dopo aver fatto organizzare un banchetto nel corso del quale fece servire cibi ben saporiti e piccanti alla Regina, facendosi poi promettere (dato che sembrava rifiutare la sua corte) che non avrebbe “gustato” nient’altro di ciò che apparteneva a Salomone. Durante la notte, però, Makeda ebbe l’imprudenza di alzarsi per placare una sete insaziabile… e così, esattamente nove mesi dopo, nacque Menelik, il “figlio del sapiente”, primo imperatore di una dinastia salomonica destinata a dominare addirittura fino al 1971. Inviato a Gerusalemme per far visita al padre e per crescere in saggezza a suo fianco, Menelik tornò (si dice) con l’Arca dell’Alleanza, nientepopodimenochè il sacro contenitore delle Tavole consegnate da Dio a Mosè. Axum, dunque, capitale di un regno, dove ogni imperatore si è fatto incoronare nella Cattedrale di Nostra Signora di Sion, Cattedrale dove sarebbe custodita, appunto, l’Arca dell’Alleanza, che tanto ha fatto e fa sognare archeologi, esploratori, scienziati, filosofi, artisti e semplici ricercatori.
Furono i Tigrini e gli Amhara a fondare il regno di Axum, uno dei quattro regni del mondo secondo gli antichi.
Dopo un’abbondante colazione e dopo aver registrato che la compagine si dispone sufficientemente predisposta (malgrado alcuni stenti che hanno attecchito, ahimè, sull’intero corpo femminile), si saluta la compagnia dell’hotel per scendere all’interno del Parco delle Stele. Quasi tutti questi monoliti poggiano su un basamento di granito costellato da piccole cavità. Sulla prima fascia è scolpita una falsa porta, poi si susseguono piani decorati, finestre scolpite e travi sporgenti. Molte di queste steli sono state nel tempo risollevate, altre giacciono a terra, spaccate in più punti. La scoperta, avvenuta nel 1954, di alcuni loculi sottostanti ha confermato la destinazione funebre di questi singolari monumenti, impostati con vocazione commemorativa, quasi sicuramente in onore del succedersi dei sovrani.
La stele più significativa, la cosiddetta Grande Stele, è alta 33 metri, il monolito più grande eretto dall’uomo, dato il suo peso stimato in ben 517 tonnellate. Tutti quanti ci soffermiamo di fronte alla Stele di Ezana, il primo re cristiano, la più alta del complesso ancora issato, stupendamente scolpita e decorata in tutti i suoi particolari. Una speciale curiosità e attenzione è riservata, ovviamente, alla Stele di Roma, la seconda per dimensione, trasportata in Italia nel 1947 e restituita all’Etiopia nel recente 2003.
Una particolare suggestione è provocata dalla visita del Palazzo della regina di Saba, il Palazzo Dungur, realizzato in stile tipicamente aksumita fra il VI e VII secolo d.C., insieme alla visita della Necropoli e delle tombe dei Re Kaleb e Gebre Meskel, poste sulla collina prossima ad Axum, su due tombe monumentali; un autentico esempio di architettura raffinata ed essenziale. E quando raggiungiamo il vero cuore della città, eccoci di fronte alla Chiesa di Santa Maria di Sion, all’interno di un complesso spettacolare. Il fido Feleke si dilunga abbondantemente ad illustrarne il significato anche simbolico che riveste per Axum e l’Etiopia intera, dato che potrebbe rappresentare il primo esempio di presenza cristiana addirittura in terra africana. Ed è proprio qui, in uno spazio severamente custodito e sorvegliato che si dice riposi l’inavvicinabile Arca dell’Alleanza. Il complesso custodisce anche un piccolo Museo, interessante soltanto per la sua varia collezione di corone di antichi monarchi etiopi.
Ed è proprio di fronte alla Cattedrale di Sion, in una cornice avvincente, che si erge il trono in pietra, usato per il procedere delle incoronazioni.
Una mattinata trascorsa con particolare intensità, sia fisica, sia dedicata alla scoperta delle più antiche tradizioni. Un breve, meritato riposo serve anche a verificare le condizioni di resistenza del gruppo che, purtroppo, è costretto ad uscire “assottigliato” per la forzata assenza di tre compagne, attratte più da un letto piumoso che da una sfaticata lungo il percorso verso la zona dei mercati. Scoperte di curiosità, trattative che prolungano i tempi, animazioni che coinvolgono commercianti e liberi passeggeri, visita al giardino ereditato dalla maestria dell’arte italiana durante la colonizzazione: questi sono gli adempimenti principali della serata, prima di ricongiungerci tutti, chi ancor più stanco e chi decentemente riposato, intorno alla spaziosa tavola sulla quale anche stasera è imbandita una appetitosa quantità di perfetti piatti tipici.
4 gennaio
La più bella notizia mattutina è riservata alla diretta constatazione della brillante ripresa delle nostre signore. Tutto bene, esclamano! E soprattutto pronte a mettersi alla prova, peraltro di primo mattino, poco dopo le ore 7.00, diretti velocemente verso il Villaggio di Yeha. Si abbandona Axum, perforando le sue incustodite periferie, già abbastanza animate… e ciò che ci rende più soddisfatti e fiduciosi sono le fitte schiere di giovani e giovanissimi studenti che, squadrati all’interno delle loro ordinate divise di colore blu, si stanno già dirigendo verso le sedi scolastiche.
Malgrado non sia contemplata, ci accordiamo con Feleke per una breve sosta nella storica città di Adua, dove tutti ricordiamo la disastrosa sconfitta imposta dall’Imperatore Menelik, oltre un secolo fa, all’esercito italiano del primo ministro Crispi, testimoniata anche da uno specifico monumento ai caduti, installato dalla nostra Ambasciata. E mentre si riprende il percorso, la terza camionetta è affetta da un grave guasto, generato da una strada tutt’altro che di facile approccio, che ci costringe a pressarci nelle due rimaste ancora sane.
Merita davvero la prossima tappa: Yeha, la prima capitale conosciuta dell’Etiopia, il più antico monumento e uno dei siti storici più suggestivi e misteriosi, dov’è racchiusa leggenda e tradizione. Risale al V secolo a.C. e fra il 1905 e il 1906 egregiamente restaurato per merito di una missione di geniali architetti tedeschi. Costruito su una specie di piattaforma, al Tempio pre-cristiano si accede attraverso una maestosa scalinata. L’aspetto è assolutamente imponente, dominato da mura ciclopiche, che pare abbiano addirittura protetto, sotto il Regno di Menelik, l’Arca che proveniva da Gerusalemme. La presentazione è meticolosa, specialmente di fronte alla Stele ornata da una luna e sormontata da una mezzaluna, mentre visitando l’angusto Museo si scopre una ricca collezione di antiche iscrizioni sabee, insieme ad interessanti manoscritti, dove scopriamo anche una targa intitolata alla divisione fiorentina “Gavinana”, ovviamente risalente agli anni della colonizzazione italiana.
C’è chi decide di rinunciare all’”imperdibile” Monastero di Debre Damo. Peggio per loro, che non hanno l’ambizione e la curiosità di provare una delle avventure più avventurose. Non è il caso nostro, o meglio di alcuni di noi. Ecco, dunque, già assunta la direzione, attraverso vallate circondanti, dove i cammelli hanno sostituiti gli asini, dove variano le coltivazioni di un’agricoltura diversificata, dove non si curano soltanto le produzioni cerealicole, dove sembrano trattenersi alcuni ristagni di acqua, anche se resta assolutamente scarsa la presenza di operatori agricoli, come riprova di una passione svogliata. Un paesaggio nuovo, diverso, scalettato e terrazzato, con sullo sfondo ruvide colline che contornano le richiamate, ampie e verdeggianti vallate.
Un’attraversata comoda, con tratti di strada asfaltata, dove ci imbattiamo (sarà colpa del destino o dell’asfalto?) in ben due complicati incidenti mentre già si avvista l’invidiabile Monastero, posto su un altopiano tabulare, un’”amba” in etiope, che tutti facciamo assomigliare a quello del nostro Orvieto. Peccato che sia impedito alle donne, ma peccato anche che tutti gli uomini non ne approfittino, data la complicanza dell’ascesa. Sì, si può scalare l’altopiano soltanto aggrappandosi ad una corda che scorre sulla parete rocciosa. E’ vero che i monaci ci offrono un po’ di aiuto, ma l’impresa resta ardua. Ci inerpichiamo in quattro: io, Niccolò, Gigi e Tommaso, ma non appena si conquista la sommità lo spettacolo è miracoloso. Siamo a circa 3.000 metri di altezza con di fronte un paesaggio particolare: vincono la prova numerose e perfette gole ordinate, non sguaiate, che impreziosiscono l’intero scenario di colore rosso-bruno. Fu Abuna Aregawi (uno dei “nove santi” venuti dall’Egitto) che si innamorò di questo paesaggio e nel VI secolo vi costruì questo impeccabile Eremo, aiutato nell’impresa, si dice, da un serpente, inviatogli per pietà da S.Michele.
Si è guidati da alcuni monaci che qui vivono permanentemente, rendendosi autonomi in tutto e per tutto. La caratteristica fondamentale della storica Chiesa, risalente al X – XI secolo, è il suo ricco soffitto a cassettoni, scolpiti a motivi geometrici ed animalistici di gusto copto. Il convento può ospitare fino a 300 monaci, che praticano i loro riti in perfetto isolamento, tranne i pochi, coraggiosi visitatori. Anche per queste condizioni, dunque, Debre Damo resta la più antica testimonianza della scultura in pietra, miracolosamente conservata. Si trascorre circa un’ora, divertiti anche dal disquisire circa le possibili passioni amorose di questi monaci. Spinto da Niccolò, tento di provare qualche verifica nei confronti del nostro accompagnatore, “trafficandolo” qua e là, anche se senza esagerare, sia chiaro. Non gli interessano le donne, ma con gli uomini, come la mettiamo? E giù, risate a crepapelle, naturalmente insieme ai nostri stessi ospiti, con i quali insieme ci divertiamo, lasciando il campo ad una sorta di infrequente allegria.
Il pranzo si consuma non appena raggiunta Adigrat, la seconda città del Tigrai, dopo Macallè. Poi si prosegue verso Gheralta, proprio allo scopo di visitare due delle Chiese rupestri più affascinanti e particolari delle tante che infittiscono la regione del Tigrai. Pare siano addirittura 120, anche se molte risultano inaccessibili e comunque rappresentano il segreto meglio conservato dell’Etiopia copta ortodossa.
Orbene, scegliamo una delle imprese più accattivanti, ma insieme anche più impervie, dato che, per “conquistare” le Maryam e Daniel Korkor, bisogna inerpicarsi lungo un ripido sentiero, a tratti davvero sconnesso, stretto, tortuoso, scomodo, anche se l’alto grado di inaccessibilità contribuisce ad aumentare il fascino di questi veri e propri gioielli di architettura. Serve una camminata di oltre un’ora piena, ma soprattutto serve ben disporsi, dato il ripetersi delle varie e molteplici complicanze. Ma c’è attesa, c’è voglia di scommettere e provare, c’è l’intenzione di farlo ad ogni costo, con la piena e totale consapevolezza del difficile affare. Si parte in quarta, poi si scende alla terza, dunque in seconda, poi s’innesca la prima e talvolta la marcia di riserva. Ma vogliamo assolutamente farcela e ce la facciamo, a dispetto delle più aspre difficoltà, dovute ad un percorso scavato in stretti passaggi, fra pareti rocciose e ripidi strapiombi. La soddisfazione è grande, grande per avercela fatta, grandissima ed ancora più grandissima per lo spettacolo che ci viene riservato. Ci attendono monaci… ci attendono quasi increduli, quasi pronti a domandarci con quale spirito e quali energie si sia potuto conquistare la meta.
L’emozione provocata dalle due Chiese Korkor è assolutamente enorme, sia per l’incantevole locazione, sia per le loro decorazioni, i loro archi, le loro colonne, le loro cupole, i loro affreschi. Un sacerdote, un po’ scorbutico ed esigente, accetta dopo qualche trattativa di concederci l’accesso anche a tutti gli anfratti più riservati delle due Chiese, assolutamente superbe. Un’esperienza irripetibile, che personalmente trovo come la più coinvolgente fra le tante provate.
Si rientra, accettando l’invito di Feleke a darci una mossa, consapevole della magnificenza che il tramonto offre in questo particolare angolo d’Etiopia. Si corre, si corre velocemente per raggiungere il Gheralta Lodge, in quel di Hawzien, dove la spettacolarità del tramonto batte davvero forte. Ognuno se ne gode gli effetti panoramici, subito dopo aver depositato i bagagli nelle attrezzatissime camere che ci vengono messe a disposizione. Un Lodge di assoluto pregio, un’oasi di pulizia, dove tutto funziona alla perfezione, dove Silvio Rizzotti (un qualificato manager, già fido collaboratore del Presidente Romano Prodi) ha deciso di investire tutto quanto serve per garantire un’ottima qualità, sia in termini strutturali, che di servizi ed accoglienza, avviata con l’offerta di un simpatico aperitivo di benvenuto, servito nella comoda veranda coloniale, perfettamente attrezzata con poltrone e divani, ma anche con una ben documentata biblioteca di riviste e pubblicazioni sulla storia e la geografia dell’Etiopia. Una scelta di vita che il Sig. Rizzotti ha inteso dedicare al proprio padre, che proprio in queste terre ebbe a svolgere delicate funzioni mediche fra gli anni ’40 e ’60.
Un ambiente onirico e una cena perfetta, che completano una giornata difficilmente ripetibile, anche dopo aver appreso da Feleke dell’avvenuta soluzione di qualche guasto che aveva interessato uno dei nostri mezzi di trasporto. Felicità, felicità e buonissima notte a tutti quanti.
5 gennaio
A colazione ognuno divaga le sue fantasie, mentre assorbe con piacere ottimi piatti abbondanti, a cominciare dalle prelibate e “salutari” ciambelline fritte. L’apprezzamento per l’ospitalità è ampiamente condiviso, tanto che qualcuno azzarda proposte di consumare qui una ragguardevole vacanza-relax. E’ questa anche l’occasione per salutare alcune conoscenze maturate in loco (in modo particolare alcune coppie svizzere) e dunque predisporsi verso Macallè, dopo però aver strimpellato la rituale pigrizia atavica degli incaricati a predisporre gli adempimenti necessari ad accelerare la nostra partenza.
La mattinata serve per implementare ulteriormente (qualora ve ne fosse stato bisogno) l’elenco delle nostre visite alle Chiese rupestri. La prima è dedicata alla spaziosa Abraha Atsbeha, dunque alla Chirkos, caratterizzata da un’architettura insolita per l’abbondare dei suoi capitelli cubici. Più che altrove, siamo letteralmente accerchiati da simpatici bambini, pronti ad anticipare la loro inclinazione di stampo commerciale, mettendosi a vendere comuni sassolini, al prezzo di soltanto 1 birr ciascuno.
Serve un’ora e mezzo di aereo per collegare la capitale del Tigrai Macallè con la capitale Addis Abeba, dove giungiamo in tempo per predisporci a consumare l’ultima cena, in un tipico ristorante nel centro della città. E’ qui che si fa conoscenza con l’amica Anna, la responsabile della locale Agenzia Medir. Una simpatica signora, originaria del Mugello e in precedenza, addirittura, di Empoli. Si entra subito in perfetta confidenza, che ci aiuta a perfezionare la conoscenza delle tipiche e tradizionali caratteristiche della cucina etiope, consumata tutt’intorno a due ampi vassoi dove vengono distribuite svariate vivande: verdure, spezzatini di carne, abbondanti salse piccanti, qualche traccia di formaggio, stufati di vario genere… e dove il tutto è trangugiato insieme a numerosi rotoli di injera, l’elemento base, una specie di focaccia acidula e spugnosa, che giustappunto tenta di rimpiazzare il nostro pane quotidiano.
Ed è proprio l’injera, usata unicamente con le mani, che serve a raccattare i vari alimenti sopra descritti. Un’occasione simpatica ed importante per penetrare al meglio le tradizioni anche più comuni di questo popolo, mentre il ritmo delle musiche rende ancora più affascinante il diluirsi della serata. Una musica coinvolgente, dai ritmi sincopati, che toccano le corde profonde dell’ispirazione. Una musica prorompente che chiediamo di interrompere soltanto per dedicare qualche minuto al compleanno di Roberto, al quale le nostre signore, salite sulla pedana, indirizzano una calorosa cantilena, fatta di “Tanti auguri a te”. E con questo si conclude, di fatto, il viaggio in Etiopia.
6 gennaio
La sveglia è programmata alle 6.00 e dopo colazione si parte per l’aeroporto, mentre su proposta di Carla si verificano le rispettive disponibilità per una cena da socializzare, tutt’insieme, a Vico d’Elsa, giust’appunto a “Villa Borri & Cencetti”, che concordiamo per fine gennaio, esattamente per sabato 23.
A metà pomeriggio atterriamo a Roma, dove ci raccoglie il pulmino per rientrare, Via Aurelia-Grosseto, prima a Certaldo, quindi a Firenze.
Siamo tornati, ma il viaggio sta continuando dentro di noi. Ogni viaggio inizia con una partenza, finisce con un ritorno… e continua con un racconto. So bene, per carità, di non poter neppure lontanamente eguagliare l’insuperabile Bruce, che con il suo “Viaggi” ci presentò magistralmente l’Etiopia già alla fine del XVIII secolo. Chi vorrà potrà, tuttavia, decidere di accontentarsi o meno di questo mio racconto, che quest’anno concludo così, un po’ frettolosamente, data la mia promozione di grado per essere diventato, felicemente, nonno fortunato. Silvia ha deciso in tempo utile di beneficiarci di questo impagabile regalo: Alessandro è arrivato giovedì 25 marzo, esattamente alle ore 9.03 ed io non posso e soprattutto non voglio più distrarmi. Basta così! Il mio interesse e la mia passione sarà tutta concentrata su lui, almeno fino alla prossima avventura. Intanto, però, anche e soprattutto da nonno, manterrò vivo il ricordo del colore festoso e accecante degli occhi dei tanti bambini incontrati, come fossero infestati dalla brillantezza di una luce semplicemente straordinaria.
Sì, è vero, è verissimo che ancora una volta Sandra (malgrado i pochi ritagli di tempo a disposizione) si è cimentata col dover rendere più corretto e scorrevole possibile il diluirsi dei miei racconti; ce l’ha fatta… e così possiamo considerare divulgabile l’insieme delle mie provate immaginazioni.