Corpo di donna: da fata a strega, percorsi dell’identità femminile
E’ tutta colpa di Eva.
Sì, proprio lei, la biblica progenitrice del genere umano. Tanto che il peccato originale è comunemente detto “il peccato di Eva”. E’ lei che ha ammaliato, indotto in tentazione, sedotto e trascinato il povero Adamo. E la colpa sua è ricaduta sull’umanità intera, uomini e donne.
E va’… non è stato certo un peccatuccio da poco.
Insomma la prima tentatrice e responsabile del peccato originale, ha inaugurato un duro percorso dell’identità femminile in tutti i tempi.
Ancora oggi i modelli di donna diffusi dai mezzi di comunicazione di massa, con larga presa sull’immaginario collettivo, maschile e femminile, fanno leva sul corpo della donna, mostrato ed esibito in modo ammiccante e provocante, quasi ad essere un esclusivo oggetto del desiderio sessuale, da buttare appena non sia più rispondente ai canoni tradizionali di una perfezione tutta esteriore.
L’importante è apparire…
D’altra parte non fu mai sì bella scarpa che non diventi una ciabatta!
Non certo persona, essere pensante, ma oggetto da guardare e da possedere, quindi anche da comprare, magari da collezionare nelle sue più svariate campionature.
I tipi di donna più presenti nella cultura di senso comune potrebbero raggrupparsi in due prototipi distinti e complementari, ambedue rispondenti ai desiderata maschili: le moglimadrisorelle, da amare e rispettare, regine degli ambiti domestici e le maddalene, affascinanti figure di un fuori trasgressivo e notturno, da desiderare per avventure “usa e getta”.
Rosa e celeste per gli angeli del giorno (Festa della mamma, Zecchino d’oro…), tinte forti per le maliarde della notte.
Dentro e fuori, lecito e illecito, dovere e libertà, procreazione e sensualità.
Da una parte le santarelle: Non lo fo per piacer mio, ma per dare un figlio a Dio!
Dall’altra le puttanelle: La donna è come il vischio, non si posa uccello che non ci lasci le penne!
Per cui: Donne e oche tienine poche perché Ogni cosa è di Dio fuorché le donne.
Ma questi proverbi, tratti da una tradizione popolare ormai antica, potrebbero non rappresentare più l’attualità, invece è ancora così, con poche varianti.
Un sostanziale dualismo attraversa il modo di pensare la donna in tutti i tempi: la percezione del femminile ha oscillato e oscilla fra i due tradizionali modelli della fata e della strega.
Fate e streghe costituiscono una permanenza stabile in molte culture come archetipo del vissuto e dell’immaginario collettivo. Sono presenti in tutte le fiabe, pur nelle diverse sfumature, ma a loro volta, fata e strega, rappresentano ulteriori dualismi.
Cominciamo dalla strega: fra le sue varie accezioni, esplicita subito quella di adescatrice e seduttrice; ma stregare e fatturare, significa anche incantare. Il sortilegio racchiude sempre in sé una sorta di incantamento. Insomma la strega lusinga e fa perdere la testa, seduce e soggioga, ma apre le porte dell’estasi.
Anche la fata è una figura ambigua e polimorfa, dalle identità plurime: con incantesimi e metamorfosi richiama i meccanismi della vita e della morte, tanto che a volte appare maga e strega nello stesso tempo.
Nei vocabolari viene definita come incantevole figura femminile della mitologia popolare, dotata di poteri magici “per lo più benefici”: ma quel “per lo più” insinua subito qualche sospetto.
Il modo di dire sei la mia fata la fa percepire come donna provvidenziale, dotata di poteri un po’ occulti, poco chiari, pronta a soccorrere chi si trova in difficoltà, quasi per incantamento. Ma a voler esser disincantati, si percepisce una sorta di adulazione interessata, una captatio benevolentiae volta ad assicurarsi futuri interventi pronti al bisogno.
Mani di fata, modo di dire e titolo di una rivista molto diffusa, relega le fatali abilità femminili in ambiti circoscritti alla sfera domestica, a un fare di mera casalinghitudine.
Di tutt’altro stampo è invece la femme fatale dotata di irresistibile fascino e forza di seduzione, al quale è proprio impossibile resistere. E’ quindi fata, ma anche un po’ strega.
Fata, neutro plurale di fatum, destino, definisce la fata come dea del destino, quindi governata dal caso, dalla sorte e quindi dalla fatalità.
Le molte fate che hanno attraversato la storia del mondo magico sono figure affascinanti pur nella loro diversità: Morgana, Circe, Armida, Alcina… sono donne favolose, dotate di poteri incantatori. Infatti l’appellativo fatato ci trasporta nella sfera del magico, proprio di un mondo affascinante e straordinario.
Anche fatale è qualcosa di prescritto dal destino, inevitabile e ineluttabile. Infatti si dice: era fatale che ciò avvenisse. Tanto che il dì fatale diventa il giorno della morte.
Le fatali conseguenze ci trasmettono il senso di qualcosa di disastroso e funesto.
Con l’ultima ora dell’uom fatal Manzoni intende un Napoleone destinato a compiere imprese memorabili. E così infatti furono.
Anche la parola fatalità significa qualcosa avvenuta per caso e per disgrazia, comunque imprevedibile e ingovernabile.
Certo è che la figura della fata riveste e ha sempre rivestito un’importanza basilare per l’immaginario collettivo, maschile e femminile.
Nata nel folklore si innesta nel letterario con la duplice identità di madrina e di amante; grande dea che ricorda un tempo di perfetta parità fra uomini e donne ed è collocabile nella sfera del meraviglioso: sta nel mondo e nell’altro mondo, nel dove e nell’altrove, in quel non luogo dove si incontrano l’umano e il divino.
Assume forme meravigliose, ma bizzarre e inquietanti, muta di nome e di aspetto con un sostrato di identità plurima: d’altra parte gli archetipi non hanno mai un solo volto o una sola identità, ma trovano il loro senso nell’unione degli opposti.
La grande dea, la signora dai mille nomi, è proprio l’unione degli opposti che tutto connette: Luna, Iside, simbolo della fecondità a base del mondo, seducente e misteriosa.
Ricorda il mito greco delle Parche e delle Moire per i latini.
Le madrine e le amanti che accompagnano gli eroi nei loro viaggi sono moltissime, dalla classicità greca fino all’età romantica tutte facilmente riconducibili al culto di Iside.
Anche l’aspetto iconografico mantiene questa immagine duale: orrida e sublime, bella e deforme, voluttuosa e truculenta. Come non ricordare Medusa?
Semidea, mater mutata: scardinatrice della gerarchia del potere maschile, presente nelle culture di ogni luogo e di ogni tempo, trae la sua forza dalla natura per mezzo della sua intelligenza.
Medusa diventa l’emblema della bellezza trasformata in orrore: fanciulla bellissima che una notte Atena sorprese mentre si accoppiava con Poseidone, così, sdegnata, la trasformò in un mostro.
E’ la donna che pietrifica con lo sguardo, il suo fascino colpisce, avvince e plagia.
Nella società occidentale la figura della strega è speculare a Medusa: nell’accoppiamento con Lucifero-Satana, l’assoluto, produce conoscenza.
Medusa è la più fragile delle tre Gorgoni, tre è un numero magico e tre sono anche le Parche latine.
Lamiae, maleficae e striges sono i termini usati nella tarda antichità per indicare le donne dedite al maleficio. E la letteratura classica è popolata da donne dedite ai malefici: le Maghe di Teocrito e di Orazio, nella Teogonia Esiodo ci racconta delle Graie e delle Gorgoni, poi troviamo le Erinni, le Furie della mitologia romana che nacquero dal membro di Urano. Moltissime sono quelle narrate da Omero, fra le quali campeggia Circe, splendida e sensuale. Ancora il permanere di un dualismo.
Nella civiltà greca e romana coesistono infatti due specifiche accezioni della strega: sacerdotessa e donna dedita alle brame d’amore. Nell’epoca medioevale il dualismo campeggia con Morgana e Melusina.
Insomma in ogni epoca l’immaginario maschile ha codificato le donne entro i schemi chiaramente duali.
Caravaggio e Rubens le hanno rappresentate pregne di passionalità e carnalità, ma non prive di forza e di violenza.
Lamia e Medusa trasmettono il senso del bello e del sublime, insieme al terrifico.
Questo dualismo è continuato anche nella cosiddetta modernità.
Mentre si fomentava la mistica della maternità cantando son tutte belle le mamme del mondo c’era il controcanto di balocchi e profumi.
Nei mitici anni Sessanta, mentre Gigliola Cinquetti cinguettava non ho l’età… c’era chi pretendeva un uomo d’oro tutto per me!
Insomma mentre le ragazze perbene si erano appena convinte di andare in paradiso, cominciarono a guardare con una certa invidia le ragazze permale che intanto preferivano andare dappertutto, poiché qualcuno aveva detto che il paradiso può attendere… e insinuato che non era poi cosa molto certa.
Anche adesso, mentre si afferma in molti campi la donna con la pistola nelle mutande, sicura che per primeggiare occorra diventare simil maschi, dall’altra ci troviamo il cyber sex. Siamo ancora lontane dall’affermazione di un’uguaglianza basata sulla valorizzazione della differenza.
Riteniamo che i percorsi della vera emancipazione si basino invece sulla continua ricerca di nuovi significati dell’identità, in questa bella, mutevole e “insostenibile leggerezza dell’essere” che abita ogni persona. Ognuno dovrebbe coniugare in piena libertà le mille sfumature dell’essere che si collocano fra i due tradizionali poli del maschile e del femminile.
Si tratta di scompigliare il mondo e ricostruirlo in nuove cornici di senso.
Non è poco. Faremo comunque la nostra parte.