Al femminile raccoglie una serie di saggi che riflettono con prospettive incrociate su figure femminili, prese dal mito e dalla letteratura. Tracciano percorsi e narrano storie che hanno il femminile come filo conduttore. Il tentativo è quello di capire meglio noi stesse di oggi, nell’esplorare i miti di ieri.
È anche un’occasione per rileggere e ri-conoscere personaggi e romanzi che magari abbiamo appena sfiorato o mal compreso con gli strumenti schematici propri di certo scolasticismo.
Medea e Cassandra, Elsa e Amelia, Emma e Virginia, rappresentano tipologie di donne che attraggono e inquietano, stimolano riflessioni e provocano discussioni, dotate di un forte potere di fascinazione. Non certo convenzionali, trovano la forza per ribellarsi a un destino segnato da altri. Tracciano percorsi di emancipazione per un femminile che rifiuta la convenzionalità e lo stereotipo.
Le loro storie diventano metaforiche e possono aiutare a rinascere con saggezza, a potenziare quella sensibilità che rende idonei ad affrontare la vita, anche quando si presenta nel suo lato più oscuro. Affascinanti e talvolta orrifiche, comunque destabilizzanti, instaurano con le noi di oggi un dialogo profondo e proficuo.
Questo libro ci offre un’interessante occasione per rileggere e riconoscere miti e personaggi, quasi delineando la storia di un percorso femminile che porta “dalla cecità subalterna alla veggenza ribelle”, evidenziando la lotta necessaria per conquistare uno sguardo davvero autonomo sul mondo.
È un ennesimo tentativo di trovare una risposta alle domande: come siamo diventate quelle che siamo? E come siamo? C’è ancora difficoltà a espandersi secondo le proprie potenzialità? Come essere presenti nel proprio tempo senza subire il pensiero dominante, senza separatismi? la parola permessa è ancora quella autodisciplinatasi?
Ecco perché scrivere diventa una gran risorsa per vigilare contro la conformità e uscire dalla cecità indotta.
D’altra parte fare i conti col passato serve per impostare bene quelli col presente. L’aspirazione è quella di vivere a occhi aperti, come Arturo/Elsa, dopo la cecità dell’infanzia e la burrasca abbrumante dell’adolescenza.
Sono storie che predispongono a una dimensione in cui è tutto l’essere a mettersi in gioco. “Cassandra rimanda all’esperienza globale dell’essere, oltre lo scudo dell’ideologia, oltre la parola” osserva Anna Ferruta.
Come la parola di Cassandra non ha credito, la parola femminile non ha peso. Ancora molte donne sono state addestrate a non dire o a dire come i maschi. Mal interpretando l’uguaglianza con la rinuncia alla differenza.
Molte devono ancora smettere di essere”figlie del padre”, di modellarsi secondo modelli maschili oppure con seduzioni funzionali alle aspettative maschili, del tipo “sarò come tu mi vuoi”. Quando scopriranno, come Cassandra, di essere state addestrate a non dire, allora vorranno parlare da donne, con la forza di un punto di vista peculiare, talvolta anomalo, spesso divergente, comunque non consueto. E con un femminile né oppositivo né acquiescente, ma emancipato.
Si può sedurre senza abbassarsi al compiacimento e affascinare senza omologarsi.
Forse, come Cassandra, dopo aver vissuto la conformità deferente e aver conquistato una ribellione impotente, dobbiamo nominare il mondo con una nuova lingua, arricchendolo di nuovi significati.
Non è facile, perché questi significati non stanno mai in superficie, ma nel profondo della persona, lì dove corpo e anima si intrecciano nella poliformica unità dell’essere. In quell’incrocio di culture che è ognuno di noi.
Ed è la scrittura la chiave di volta: nominare il mondo con una nuova lingua madre.
La grande aspirazione è quella di creare una lingua propria, nella speranza di poter esprimere l’inesprimibile. E allora c’è bisogno di indugiare nelle forme del pensiero.
Una lingua che rivitalizzi le parole decolonizzandole dalle ideologie e reinventi chi la scrive.
Occorre dare voce e parola a chi ha bisogno di avere voce e parola, anche se talvolta è monstrum che attrae e spaventa. Come Medea, archetipica terra-madre.
Perché “nella scrittura, come nel sogno, tutte le combinazioni stravaganti sono possibili”, incalza Nadia Fusini. Scrittura-alchimia, capace di confondere i confini delle cose e di elevarsi dalla nuda realtà, con qualcosa che eccede la dimensione realistica delle parole, le cattura con l’intuizione e le plasma con tutti i sensi e in tutti i sensi. “Devo uscire dalla vita” per entrare nella realtà, “quando scrivo sono semplicemente una sensibilità”, confessa Virginia Woolf.
Immaginazione, quindi, come luogo in cui si incontrano sensibilità e intelletto.
E talvolta l’atto della scrittura diventa necessario per il silenzio. Per Virginia infatti scrivere Al faro ha assunto il significato di far quietare padre e madre.
E’ un femminile a dir poco problematico, comunque scomodo, fuori dai canoni, quello che scorre nei saggi raccolti in questo libro.
E’ uno specifico poliedrico che non può essere legato al palo del pensiero fisso, per questo necessita di con-divisione e di inter-azione. Di una comunicazione che sia capace di andare oltre la parola.
Se ogni persona è un complesso di molteplici entità e comunque ogni identità è sottoposta a un processo di trasformazione continua, non possiamo imprigionare nessun soggetto nella fissità di un’astrazione.
Mai come adesso appare attuale la riflessione di Cassandra sull’incapacità di immedesimarsi nell’altro per costruire un noi, un cum attraverso l’inter. Il noi apre una dimensione relazionale gravida di futuro. Allora c’è davvero speranza.
Forse bisogna imparare a guardare meglio nell’intimo più intimo, lì dove corpo e anima non sono ancora divisi. Non ci si può accontentare della realtà, l’anima non è mai concreta e la conoscenza non basta a penetrarla. E’ l’essenza della realtà il chimerico bersaglio.
Se ognuno trova un modo di stare con la pluralità di se stesso, allora è possibile superare il senso di impotenza verso il cambiamento, potenziare l’inquietudine affinché sbocchi in creazione, e non affiori il disincanto.
Tutto ciò avviene attraverso gli strumenti di indagine della critica letteraria e della psicoanalisi, attraverso un incrocio di punti di vista. Entrano in campo metodologie diverse e affini, inediti accostamenti, nuove comparazioni.
Si tratta di classici che, come sosteneva Calvino, non finiscono mai di dire le verità che hanno da dire. La vera arte resiste nel tempo stimolando sempre nuove e sofisticate analisi alla ricerca della ragion d’essere della scrittura.
Anche se ogni interpretazione è come una ferita, è come “bucare il testo” osserva Ripa di Meana.
Gli approcci multidisciplinari evidenziano legami di contiguità, stimolano reciproche riflessioni, incoraggiano sconfinamenti. A volte il punto di arrivo segna l’inizio di un nuovo percorso. Si hanno così mirabili figurazioni multiple.
Ogni confine è mobile e permeabile, basta liberarsi dalle gabbie del pensiero unico.
Ascoltare e confrontare diversi contesti politico-culturali per tentare di sciogliere i nodi più complessi, provoca un fluttuare di interrelazioni, una pratica ermeneutica che sa essere attenta allo specifico senza perdere di vista la prospettiva globale.
D’altra parte anche Freud ammette: “i poeti sanno più di noi”.
E allora con Cassandra prenderemo la parola e accoglieremo l’invito a diventare l’altro, a immedesimarsi nelle alterità per costruire relazioni.
Medea ci aiuterà a scoprire il barbaro che si acquatta in ognuno di noi, il male mal represso e pronto a esplodere.
In Amelia troveremo il succo della parola poetica intessuta di incroci e sospensioni di senso. La sofferenza nella vita può spingere a forzare la parola per ricercare nuove assonanze e inedite significazioni che ne aumentano il fascino e la pregnanza. Così come il femminee il maschile spesso si fondono e si confondono.
In Elsa/Arturo percorreremo un mitico cammino di crescita.
In Virginia coglieremo la possibilità di salvarci nel suo voler collocare ogni bene in una donna, la signora Ramsay. E allora ci lasciamo attirare volentieri dalla potenza materna che guida, come la luce del faro.
Infine con Emma impareremo a esistere nella nostra verità.
Al singolare
Ma quale femminile?
Quello imposto e funzionale all’ordine costituito o le mille sfumature dell’essere che mi invertiginano.
Rivendico il mio diritto a essere né una, né nessuna. Ma centomila.
Inizio con Medea, ovvero l’arcaico e il sacrale, l’eros e la magia. Non voglio rinunciare al mito, né alla barbarie. Così da straniera mi riprendo la vita che ho donato.
Con Cassandra, la veggente, supero l’invasamento e aspiro a vedere oltre le cose.
Via dalla cecità subalterna verso uno sguardo ribelle. Vedere per pre-vedere, per non accontentarsi delle apparenze. Ho imparato a non ascoltare più il rumore ferito dei miei pensieri calpestati e ad andare avanti, decisa.
Incantata dalla fragile forza di Amelia, nel coniugare angoscia e solitudine di perdita, ho stillato poesia. In quella infinita ricerca di come rendere dicibile l’indicibile, ho fuso e confuso femminile e maschile. Ritrovare padre e madre, per ritrovarsi e ancora perdersi.
Come Elsa, voglio essere Arturo.
E innamorarmi dell’innamoramento. E rendere eccezionale il consueto.
In Virginia mi sento faro: attiro, guido e salvo. Madre forte e potente. E il mistero di Virginia diventa il mistero di ognuna di noi, donna.
Emma, desidero il desiderio. Recito e poi sprigiono forza guerriera sugli imbambolati, lasciandoli attoniti. Da oggetto divento soggetto di desiderio. “Madame Bovary, c’est moi”!
Voglio vivere e non sopravvivere.
Bracco, per non essere più braccata.
Chi non mi capisce, si arrangi, è indegno della mia follia.
Non è vero che “fra tutte le creature dotate di anima, noi donne siamo le più sventurate”
Ho imparato a infilarmi nelle brecce di aperture dimenticate, a sollevare quella polvere fatta depositare ad arte sugli scaffali della memoria.
Sono stanca di barattare il quieto vivere con l’ottundimento della ragione.
L’idealizzazione e la sottomissione sono sempre acquattate nell’invidia e nel rancore.
Fermentano e lievitano, pronte a esplodere quando meno te lo aspetti.
E allora vomito le parole permesse, melense e sdolcinate. Ma già putide.
Mi spoglio del rosa e piglio le tinte forti che colorano il terreno della spietatezza.
Spengo la luce della pazienza e scavo nel cuore di tenebra.
Risveglio a una a una le parole represse, scompiglio quell’ordine del testo e frantumo la sintassi imposta sostituendola con regole tutte interiori.
Disargino ruscelli di parole per lavare le opere già scritte.
Le circumnavigo alla ricerca di nuovi significati.
Spalanco le pagine ai venti delle mie inquietudini.
Sputo il silenzio imposto e lo impasto di parole insubordinate.
Sono stata costretta a trangugiarlo troppo in fretta.
Ho paura di essere imbrigliata nelle antiche regole che mi ingrossano il gozzo, non ancora digerite.
Tolgo il velo dalla mia anima, avvolta in una perplessità brumosa. Ma non stanca.
Anzi, è tempo di rinascere.
È tempo di rinascere e voglio nascere io.
Libero dalla spelonca grumi di parole e vado.
Le raccolgo a piene mani e mi riempio le tasche con movimenti febbrili.
Vado ad venturam e porto con me solo pagine non scritte.
Come Penelope, sembro attendere, ma tesso trame di parole.
Come Griselda prendo il frutto della mia lunga pazienza.
Partorisco parole e nutro storie.
Sono pietre pronte all’assalto, non promettono certo rassicurazioni.
Tolgo dallo specchio quel velo di vapore che impedisce i contorni del me.
Mi guardo e cerco di ri-conoscere.
Non so più da quale parte dello specchio stare.
Allora salto di là, ma non lo frantumo.
Recido con forza i legàmi della famiglia: bocca chiusa e gambe strette.
Mai più dirò lègami, tanto lavoro di donna, concio di cane.
Via gli incantatori di serpenti, perché ogni cosa è di Dio, fuorché le donne.
Sono fata e strega, a mio piacimento, tanto lo so che non fu mai sì bella scarpa che non diventi una ciabatta.
Danzo sui carboni ardenti delle ingiustizie e degli intrighi: il cervello delle donne lo prende sette volte al giorno la debolezza.
Affatturo il forsennato sabba quotidiano, quindi donne e oche, tienine poche!
Sono stanca di essere adagiata in letti di nuvole o irrigidita nel marmo delle statue.
Mi succhiano l’anima e mi impediscono la trascendenza.
Nell’intensità di un pieno sentire vado alla ricerca dell’infinito.