Laggiù nell’Africa monocolore (dove anche i raggi del sole possono splendere in nero)
26 dicembre
Malgrado le ormai numerose visite a Paesi dell’Africa, raramente mi ero imbattuto nella vera e cruda realtà della cosiddetta “Africa Nera”, se si eccettua la particolare condizione delle tendopoli che ospitano, in terra di Algeria, i profughi del Sahara, all’interno, appunto, del deserto della Repubblica Araba Saharawi. Come sempre, erano servite alcune verifiche preventive per socializzare gli “interessi” prevalenti di un gruppo che, quest’anno, ha raggiunto le 12 unità. Poi la scelta era caduta sulla Repubblica del Mali, con l’aggiunta di una breve sosta di due giorni ad Algeri, accolta da 8 su 12. L’organizzazione non poteva che essere affidata alla fidata Shirin di Roma, che ancora una volta si distingue per la sua efficace scrupolosità. Partire per il Mali significa partire con un programma definito ed organizzato in ogni particolare, date le scarse e talvolta inesistenti opportunità logistiche che i villaggi visitati dispongono. Partire il 26 significa anche partire con Alitalia per raggiungere Algeri e proseguire con la compagnia algerina fino a Bamako. Partire o non partire con la mitica compagnia di bandiera? Un interrogativo che ci ha accompagnato fino al momento esatto della partenza (avvenuta, puntualmente, come da programma), anche se la legittima preoccupazione era in parte confortata dall’attiva ricerca dell’amica Shirin di una soluzione eventualmente alternativa, magari via Tripoli.
Alle 4.00 esatte del mattino, il pulmino del Maroni è sotto casa. Si sale io e Sandra, insieme a Carla, Eva, Giuseppe e Gigi, quindi Cristina e Pietro a Chiesanuova, poi a Tavarnuzze tocca a Mauro ed infine si completa con Stefania, Gianni e Francesco a Firenze. Sonnolenti, si raggiunge Fiumicino alle 8.40, dove si incontra l’affabile Shirin che, finalmente, ci tranquillizza sulla sicura partenza, ricevendo apprezzamenti soddisfatti dal sottoscritto, che non manco di rivolgerne (con maliziosa ironia) anche all’intraprendenza del “grande Berlusca”, provocando consapevolmente le sue più scontate e totali disapprovazioni. Grande Alitalia, organizzazione impeccabile e soprattutto comodissima, dato che si viaggia con non più del 50% dei posti occupati.
L’attesa per le operazioni di transito all’aeroporto di Algeri sono snervanti: lente, confuse e particolarmente scomode, specialmente per chi, come noi, è sveglio dalle 3.00 del mattino. L’arrivo a Bamako, capitale del Mali, è alle 22.30 (ora locale e un’ora indietro rispetto all’Italia) con appena mezz’ora di ritardo. Ci attende il giovane Hama, titolare di una propria Agenzia (in contatto privilegiato con la Shirin), che prima facilita tutte le operazioni aeroportuali, poi ci accompagna all’Hotel Mandè, all’interno di un magnifico villaggio sul Niger, anche se le camere potrebbero essere meglio mantenute.
Ed appena dopo aver salutato tutti, esserci dati appuntamento per l’indomani mattina alle 7.00, esserci messi in contatto con la nostra Silvia ed aver combattuto con successo contro qualche zanzara, non ci resta che impossessarci avidamente dei nostri letti, molto più comodi di quanto ci era parso in principio.
27 dicembre
Alle 7.00 è programmata una briosa colazione, che si allenta sulla spaziosa terrazza dello scenico Hotel Mandé. Aria fresca e luminosa, tavoli comodi che incoraggiano le prime impressioni, insieme alle scontate dichiarazioni di guerra contro l’avvento di eserciti, più o meno numerosi, di inferocite zanzare. Eva e Giuseppe intrattengono i primi colloqui con la signora del Rotary Club, di origine toscana, con la quale intendono mettere a punto un progetto di aiuto con un villaggio nei d’intorni di Bamako. Il “comandante” Hama ci presenta, nel frattempo, le due nostre guide: Nenè e Bu Bu, impeccabili compagni di viaggio.
Poco prima delle 8.00 si parte con tre comodissime gip: io e Sandra saliamo con Cristina e Pietro. Il paesaggio è inizialmente molto brullo, spoglio, essiccato, con una vegetazione steppica di basse graminacee; poi si inseriscono alcune coltivazioni agricole e soprattutto di cotone, che costituiscono una delle risorse principali (insieme all’allevamento ed alla pesca) della poverissima economia maliana, una terra ancora più povera delle poverissime. Il clima, con i suoi 30 gradi, è piacevolissimo, calduccio quanto basta per farci “invidiare” da chi in Italia ha a che fare con alcuni gradi sotto lo zero. Si percorre l’unica strada asfaltata del Mali ed è in buone condizioni, anche perché, in verità, scarsamente frequentata. La direzione è verso Mopti, con una sosta a San, una zona già molto più promettente, dove si individuano coltivazioni di zucche, cocomeri e cipolle e dove primeggiano, come vere e proprie statue, imperiose piante di baobab, che caratterizzano l’ambiente di questa bella savana alberata.
Una breve sosta per un rapido pranzo a base di pollo, riso e fagiolini ci consente di approfondire la conoscenza di questo popolo dell’etnia dei Bobo. A San si visita la prima moschea e il primo mercato e si ha così il primo impatto con la spettacolare architettura in terra realmente cruda. Mopti si raggiunge dopo oltre 600 chilometri da Bamako, quando oramai siamo a metà pomeriggio. L’hotel Kanaga è molto accogliente, posto sulle rive del Niger, è dotato di buone attrezzature, compresa un’invitante piscina, anche se la curiosità ci spinge a penetrare immediatamente uno dei quartieri più singolari e tipici di questa che passa per essere la capitale della terra più originale dell’intero Mali.
La cena è servita a buffet ad uno spazioso tavolo, opportunamente prenotato. Siamo tutti insieme e dunque l’occasione è ghiotta per scambiarci impressioni, per improvvisare messaggi con il simpatico accompagnatore Bu Bu e per capire come Nenè (malgrado abbia vissuto molto a lungo a Roma) possa essersi impadronito così magistralmente della nostra lingua italiana. Bu Bu è particolarmente desideroso di capire meglio l’Italia e di perfezionarne la lingua; viaggia sulla gip di Carla, Gigi, Eva e Giuseppe e con loro ne “approfitta” con ampio piacere e sincera soddisfazione.
Più tardi si torna a rilassarci sulle poltrone e sugli sdrai che costeggiano i comodi bordi della piscina, sotto un cielo brillantemente stellato, romanticamente attraversato da una luna splendente, non guastato assolutamente da foschie inquinanti di inesistenti emissioni di fumi industriali. E’ un vero piacere attardarci in chiacchiere volutamente inconcludenti, ammantate unicamente dalla voglia di stare insieme fra amici stimati, che stavolta non si sono posti scadenze affrettate, rifuggendo dalle frenesie di un mondo concitato, che comincia a starci sinceramente un po’ stretto. Sono ambizioni possibili, che questa terra può tranquillamente concederci. Poi è la buona notte, consumata nelle nostre camere a piano terra, distribuite una accanto all’altra.
28 dicembre
Al tavolo accanto, consuma la colazione una coppia di Vicenza, così presa dal fascino di questo Paese che, dopo un lungo viaggio nel 2004, vi è tornata. L’itinerario è sostanzialmente analogo al nostro, quindi è la terra dei Dogon ad essere messa ancora una volta al centro, dove avremo occasione di incontrarci nuovamente. Il nostro hotel Kanaga è il migliore di Mopti, tant’è che stamani (domenica) è “affollato” dalla presenza di diverse cerimonie matrimoniali, anzitutto per rappresentare lo scenario per i servizi fotografici, anche se la prestante bellezza di ragazze e ragazzi assolutamente splendidi, con facce simpatiche e lucenti che illuminano corpi fisici più che perfettamente perfetti, non avrebbero certamente bisogno di contorni particolarmente preziosi per risaltare adeguatamente.
Si parte, dunque, per la visita di Mopti, che qui considerano il centro del mondo. Il primo quartiere è quello che considerano il più povero; un quartiere periferico (diremmo noi), dove francamente è difficile riscontrare troppe differenze con quelli centrali. Un impatto che tuttavia non provoca eccessiva inquietudine, perché se è vero che parlare di povertà (secondo i nostri canoni) significa parlare già di qualcosa (e forse qui non esiste neppure quel qualcosa), è altrettanto vero che sui loro volti e sulle loro labbra dominano incontrastati lampi taglienti di sorrisi smaglianti, che sicuramente contribuiscono a rendere meno sconcertante la nostra visita. Attenzione, però: sorrisi che diventano accecanti quando ci apprestiamo a qualche minuscolo “cadeau”, magari un biscotto, una caramella, una penna (che invocano come bic-bic). E poi scopriamo che persino una bottiglietta vuota può rappresentare un regalo prezioso. Naturalmente ciò vale soprattutto per la ressa dei numerosi gruppi di bambine e bambini, che vivono in queste loro casupole di terra, naturalmente seminudi, talvolta coperti da qualche maglietta stralciata, che lasciano lavare soltanto dalle copiose piogge dei mesi estivi. Si è già detto della bellezza dei giovani sposi; per i bambini l’asta si alza e non pone parametri di confronto. La loro bellezza è semplicemente invidiabile e commovente, stretti nei loro corpi fisici perfetti ed equilibrati. Non sono riuscito a riscontrare aggettivi adeguati, quindi mi limito a dirvi che è commovente, così com’è commovente la loro voglia di fare gruppo insieme a noi, di stringerci la mano, di chiederci una foto, di scambiare qualche parola incomprensibile, dato che soltanto rarissimi casi hanno l’opportunità di frequentare la scuola e dunque di imparare la lingua francese.
Siamo tutti totalmente presi e conquistati, ma il Mauro (l’instancabile babbo della Stefania) lo è ancora di più e si domanda e ci domanda se non si possa, magari, fare qualcosa. Poi Mauro si dà, ovviamente, la risposta… e coglie l’occasione delle telefonate che gli giungono dalla moglie per fornire dettagli puntuali su questa esperienza eccezionale.
Moschee, villaggi, mercati. Il mercato di Mopti è uno di quelli strutturati, con una propria sede fissa, voglio dire. Naturalmente anche qui si vende di tutto, anche se la parte che più ci intrattiene è quella del loro artigianato, per non perdere le buone abitudini di trattative ed acquisti. L’acquisto più interessante è lo strumento musicale che (come in ogni parte del mondo) Cristina e Pietro acquistano per l’Enrico.
C’è un famoso ristorante a Mopti, si chiama Chez Bozo, posto su una movimentata terrazza, le cui finestre si aprono sul delta del porto fluviale, alla confluenza fra il Niger e il Bani. Vi si arriva a piedi, attraverso il mercato del pesce, tentando di scansare a fatica bancarelle affollate ed accumuli di pesce lasciato per terra. Insieme al pesce essiccato si contratta legna e lastre di sale, che imbiancano le banchine di questa insenatura portuale, dove accede una babele di piroghe e pinasse, insieme ad imbarcazioni con il ponte protetto da un semplice tettuccio di canne. Un crocevia a dir poco caotico, dove i pescatori bozo si incontrano con i nomadi tuareg e i pastori peulh con i contadini barbara. Lo scenario offerto dalla terrazza del ristorante è accattivante, il pranzo è meno raccomandabile e soprattutto servito con estenuante lentezza, data anche la ricercatezza del luogo.
Dopo un po’ di riposo in hotel (che alcuni consumano in piscina) è la volta di una spedizione in piroga sul fiume Niger, raggiungendo l’altra sponda per visitare un villaggio Bozo. La vita dei villaggi si assomiglia molto: le donne sono intente a battere ritmicamente i piloni nei mortai del miglio per preparare, poi, quel poco che serve per una possibile cena; i marabutti biascicano preghiere incomprensibili e le schiere dei bambini scorrazzano qua e là, divertendosi fra loro. In questo villaggio si assiste alla costruzione di alcune capanne, quelle provvisorie, che non dispongono, insomma, della DIA (per le concessioni edilizie italiane si tratta della Dichiarazione Inizio Lavori). Insieme a Pietro e Gianni ci informiamo di quale sia il procedimento adottato per le autorizzazioni e si scopre che anche nel villaggio è richiesta un’autorizzazione preventiva, rilasciata esclusivamente dal capo del villaggio, anche senza bisogno di rispettare le norme del P.R.G. (Piano Regolatore Generale).
Niger, il “fiume dei neri”, che i nomadi Tuareg appellano anche come il “fiume dei fiumi”, dotato di acque eterne e generose. E’ immenso, anche nel tempo della stagione secca. Attraversa per ben 4.000 chilometri tutta l’Africa Occidentale, dalla Guinea alla Nigeria e costituisce una delle grandi e poche risorse di questa parte dell’Africa, specialmente dove la pesca rappresenta una delle rare fonti di approvvigionamento di prodotti per l’alimentazione e dove nelle sue anse sono più rigogliose le coltivazioni di miglio e riso.
Al rientro in hotel, mentre insieme a Pietro tento di verificare se Nenè ci ha procurato lo spumante per il brindisi dell’ultimo dell’anno, Carla propone un aperitivo, che ci gustiamo mentre Cristina, Stefania e Sandra discutono di scuola con l’attento Bu Bu.
Mentre sto per attraversare la hall mi sento chiamare con un “Dott. Ciampolini”; mi volto e riconosco il Sig. Enrico Biagiotti di Empoli, titolare della Ditta Trade, ma per me presidente di un’associazione di genitori che, appunto, opera nell’empolese. Persona stimatissima, che non conoscevo, però, come grande viaggiatore. E’ qui da solo, con un viaggio organizzatogli da un’agenzia, perché interessato ad alcuni annuali periodi della transumanza che, purtroppo però, non avendo indovinato l’esatta settimana, ha mancato totalmente l’occasione. Ma resta la visita comunque affascinante, specialmente per lui che dispone di ben tre settimane. Ha già cenato, ma ci accompagna al tavolo e insieme confrontiamo passate esperienze di viaggio, in parte maturate in Paesi comuni, come l’India o la Namibia. Dopo i saluti, torniamo sui bordi della piscina, dove con Nenè intavoliamo una vivace discussione politica, soprattutto a proposito del Ghana e del Togo (paese dove lui normalmente vive), ma senza trascurare il Mali e naturalmente l’Italia di Sua Maestà Silvio B.
29 dicembre
La partenza è fissata per le 7.00 e siamo tutti puntualissimi. La meta è un’altra delle capitali della regione: Djennè, che si raggiunge dopo aver attraversato prima un paesaggio semi-desertico, quindi lagunoso e verdeggiante. Djennè, città dichiarata dall’UNESCO patrimonio mondiale, si trova su un’isola e per raggiungerla si attraversa, con un traghetto, il fiume Bani. Attraversano essenzialmente turisti. Siamo molto pochi e dunque accerchiatissimi da folle di bambini e ragazze che proprio qui anticipano (troppo turisticamente) le mosse mercantili, più proprie del loro grande mercato del lunedì. Le trattative sono addirittura imbarazzanti, se si pensa che la richiesta può scendere tranquillamente da 10 ad 1. Imbarazzante, anche perché i commercianti sono bambini e bambine, che con insistenti sorrisi propinano oggetti che di sicuro sono prodotti artigianalmente.
Alle 11.00 si prende a visitare la città, guidati dal fido Bu Bu, che proprio a Djennè tiene famiglia. Qui i vicoli di argilla e sabbia sembrano impreziosirsi, anche se restano di terra cruda, stretti e non sempre facilmente penetrati dalla luce del sole. Ed ancora cortili ripieni di tutto un po’, dove continuano ad armeggiare giovani ragazze, alle prese con il tam-tam per pestare il miglio nei mortai, portandosi non di rado, nei loro “boubou” dai colori sgargianti, le loro tenere creature appese alla schiena. La curiosità (ma anche il fatto che non esistono troppi impedimenti) ci porta a scrutare l’interno di queste loro abitazioni, ricevendo quasi sempre l’invito diretto alla visita.
Il mercato è un reale bailamme. La regola dello scambio in natura è felicemente applicata, adottando passaggi di merce secondo misure tanto misteriose, quanto capaci di incuriosire chiunque vi assista. Una piazza immensa ed immensamente affollata, dove si assiste ad un continuo andirivieni di mercanti, che il lunedì giungono dall’intera regione, con le scorte ammassate su camion giganteschi, incastellate fino a trasformare i medesimi in vere e proprie torri ondulanti.
La piazza del mercato si trova esattamente di fronte alla grande ed elegante moschea, costruita nel 1.907, sullo stesso sito e sullo stesso modello dell’antica moschea della fine del 1.200, lasciata cadere in rovina agli inizi dell’Ottocento. Un esempio della purezza delle architetture di fango, una delle mete più apprezzate, gelosamente custodita e mantenuta da migliaia di fedeli che, volontariamente, alla fine di ogni stagione delle piogge, la riparano e rivestono le crepe con fango diluito. Purtroppo ne è vietato l’accesso a chi non professa fede musulmana e dunque la si può apprezzare nel suo complesso esterno arrampicandoci su qualche tetto-terrazza, così come anche noi facciano, guidati dall’instancabile Bu Bu e familiarmente accolti. Gianni e Francesco studiano le migliori prospettive, poi ci mettiamo in posa per una foto di gruppo con sullo sfondo, naturalmente, la moschea.
Il pranzo è servito in un angolo molto caratteristico della città, ovviamente prospiciente il mercato, all’interno di un porticato, meta privilegiata dei gruppi turistici organizzati. La pensione dove trascorreremo la notte è molto familiare ed anche le camere sono organizzate in modo essenziale e rispettoso delle tipologie locali.
La visita pomeridiana ai villaggi di Senosa e Sirimou è più toccante del solito e Mauro addirittura si commuove quando incontriamo il capo-villaggio, esattamente suo coetaneo, dal quale è preso teneramente per mano e condotto attraverso i polverosi vicoli allineati. Ci viene raccontata un po’ di storia, ci vengono mostrate documentazioni fotografiche di personalità che hanno in precedenza visitato il villaggio e si è, come sempre, circondati da schiere sempre più numerose di tranquille bambine e bambini. Per visitare uno dei due villaggi è necessario guadare un torrente. Soltanto alcuni vi riescono, altri (ed io fra questi) non si avventurano, soprattutto dopo il tentativo provato dall’imperterrita Sandra, che rischia di scivolare in acqua.
Il tavolo per la cena è apparecchiato all’aperto, nel giardino, sobriamente illuminato. Ci sentiamo ben raccolti, come partecipi di una grande famiglia. Invogliati anche da questo scenario, si cede a dilungarci in chiacchiere e racconti casuali: da storie di comuni amici viaggiatori, all’uso dei più diversi costumi e comportamenti individuali, dal programma che io, Pietro e Gianni abbiamo per raggiungere, un giorno, Pechino in treno, partendo da Firenze-Campo di Marte, mentre Mauro ci racconta del suo abituale fare spesa alla Coop.
Il clima è assolutamente ideale e stasera sono rarissime anche le fastidiose zanzare, tant’è che temporeggiamo un po’ sotto il porticato prima di coricarci, mentre Nenè allestisce la propria tenda sulla terrazza del tetto dell’hotel.
30 dicembre
Questo nostro albergo familiare, il Djannè Djeno, ci serve, sotto il porticato, di buon mattino, una colazione ben articolata, disponendo soprattutto di speciali, appetitose marmellate artigianali. La partenza è prevista alle 7,30 e subito dopo, l’inflessibile Bu Bu ci guida alla visita di un piccolo “Muso”, che in realtà consiste in un Museo archeologico, all’interno del quale ci intratteniamo soprattutto per dialogare con il personale di servizio che, fra l’altro, ci spiega il motivo della chiusura al pubblico della Moschea di Djannè, ovvero per essere stata profanata da turisti scanzonati.
L’attraversamento del canale per tornare sulla terra ferma è come sempre reso concitato per la ressa generata da gruppi di giovanissime ragazze, che tentano di attrarre l’interesse allo scopo di vendere quei pochi oggetti di cui dispongono. Sandra, Cristina, Carla, Eva e Stefania si presentano ben disposte, anche se soltanto alcune decidono l’acquisto di alcune collane.
La prossima sosta è nel villaggio di Songho, che domina la vista sulla vallata dalla sua spettacolare posizione sull’altipiano. Ci stiamo avvicinando alla Regione Dogon, dove cambiano gli scenari, le abitudini ed i riti. A Songho primeggia su tutti il rito della circoncisione, praticato in modo collettivo, sull’apice di una scarpata, sotto la protezione di alcune grotte, dalle pareti dipinte con spettacolari pitture rupestri. La guida del villaggio ci istruisce in modo particolarmente dettagliato, fino a coinvolgerci nel porre domande per soddisfare le nostre molteplici curiosità.
L’arrivo a Bandiagara è rispettato nelle ore 13,00. Si alloggia all’hotel La Falaise, si consuma anche un ottimo pranzo, per quanto ritualmente a base di riso, pollo e qualche verdura. Siamo nella capitale Dogon e dunque non c’è tempo da perdere per avviare, già nel pomeriggio, la conoscenza con questa particolare popolazione. Per una qualsiasi escursione c’è bisogno di disporre di gip 4×4, che un gruppo di italiani non dispone e dunque è costretto a limitare la visita a Bandiagara. Gianni vorrebbe proporre di “aizzarli” contro la loro inefficiente organizzazione, così come si riuscì con un gruppo di italiani incontrati in Libia, quando li ponemmo l’un contro l’atro, giacchè l’uno incolpava l’altro dell’esosità del costo, della pessima sistemazione o dell’incompletezza del programma.
Noi si può e si parte per Teli, per la visita ai primi granai e alle prime abitazioni arroccate sotto la falesia. Francesco e Gianni guidano, da avanguardisti, il gruppo, mentre Eva è intenta a documentare, con i suoi filmati, le immagini più fascinose ed eccitanti.
Sulla via del ritorno, quando si incontrano sconnessi barrocci trainati da asini scheletrici e si intravedono alcune stanche coltivazioni, che testimoniano l’oggettiva difficoltà dello sviluppo, anche per il settore dell’agricoltura, Pietro ci istruisce sul fatto che una vera azione di solidarietà potrebbe passare dal blocco dell’”assistenza” che in Europa si concede alla nostra agricoltura, così da rendere la loro un po’ più competitiva.
La cena in terrazza è piacevolmente allietata da un concerto di musica sax, mentre a tavola ci si confronta sulle sensibilità percepite dall’eccezionalità di questa magica esperienza. Dopo di che cominciano a pendere alcune teste, con l’eccezione di quella di Mauro, che dimostra ancora una volta la sua forte capacità di resistenza.
31 dicembre
Bandiagara è la città capoluogo dei paesi dell’etnia Dogon e costituisce l’asse di penetrazione all’interno dell’intrigato percorso acrobatico, caratterizzato dalle maestose falesie. Di buon mattino, ci si avventura nello slalom di un irregolare sentiero, una pista dove si alternano vicoli stretti da masse di roccia, canyon tortuosi, appoggiati alla parete che sostiene lo sconnesso altopiano. Un saliscendi tanto faticoso, quanto assolutamente irrinunciabile e comunque inevitabile per conoscere da vicino la vita dei villaggi Dogon. La parete di roccia della falesia (che sta per fascia rocciosa) di Bandiagara si allunga per decine e decine di chilometri. Ne attraversiamo circa 13, appena l’essenziale per rendersi conto di questa unica e singolare realtà. Coinvolti da questo paesaggio irreale, ci si distribuisce esattamente nel cuore dei singoli villaggi: Banani, Ireli, Amani, Tireli. Soltanto nella parte bassa, giunti ai piedi della falesia, il paesaggio si fa meno impervio e, soprattutto per loro, di terreno più fertile, tanto che verdeggiano intense coltivazioni di verdure, cipolle, zucche (innaffiate manualmente, con la preziosa acqua dei rari pozzi costruiti da progetti di cooperazione) e non manca la presenza di qualche mandria vagante. Ed è proprio ad Amani che si fa visita ad una squadra di coccodrilli sacri, intenti a tuffarsi in un angusto specchio d’acqua e pronti a mettersi in posa per consentirci di arricchire la nostra documentazione fotografica.
L’attenzione e l’interesse che riscuotiamo è ancora più affettuoso di sempre. Siamo come immobilizzati dalla curiosità e dalla genuina simpatia, che soprattutto bambine e bambini riversano sulla nostra gradita presenza. Marcano un’assoluta discrezione, anche se i loro occhi, sempre lucenti, si illuminano come accecanti quando riusciamo a presentare loro qualche nostro modestissimo omaggio. Io e Sandra non resistiamo alla commozione quando un timido bambino, al quale ho donato ben due caramelle, decide di ricompensarci con due foglie di insalata. Commovente… ed ancor più commovente quando mi si appiglia ad una mano e non si stacca se non dopo alcune centinaia di metri.
I nostri fotografi (Gianni, Francesco, Pietro, Mauro, Gigi, Sandra, Eva) impazziscono letteralmente e sanno che l’occasione è e resterà unica ed irripetibile. D’altronde, in Mali si va soprattutto per visitare i territori che oggi abbiamo a disposizione.
I Dogon, il “Popolo delle stelle”, decisero di asserragliarsi attorno a questa falesia rocciosa verso il 1.300, allo scopo di conservare il loro mondo, la loro cosmica civiltà, il loro microcosmo, le loro visioni, le loro magie, chiusi nei loro villaggi difensivi.
Nenè e Bu Bu si danno da fare per condurci alla visita di un prezioso spazio museale, progetto della cooperazione tedesca. Un museo piccolo, ma capace di documentare tratti essenziali della misteriosa storia Dogon. In questa terra serve essere accompagnati per non rischiare di violare i loro luoghi sacri e i loro feticci. Al centro di minuscole capanne e granai è posta la “casa delle parole”, ovvero il “togu-na”, luogo degli incontri degli uomini. Un basso tetto massiccio, dove si può sostare soltanto seduti e non è dato alzarsi all’improvviso (proprio perché di altezza inferiore a quella umana), costretti dunque a ragionare e riflettere con serenità e pacatezza, senza cedere alla minima forma di alterazione.
Dalla parte bassa si sale sulla costa per ispezionare da vicino le buche scavate nella roccia che ospitavano gli antichi abitanti della falesia: i Tellem, misteriosamente scomparsi poco meno di un millennio fa. Queste loro grotte sono sospese in mezzo a pareti lisce e inviolabili, poi diventate grotte funerarie e luoghi sacri.
Tireli è uno dei villaggi più significativi, dove è possibile consumare un discreto pasto, sulla terrazza di una tipica “trattoria”. Una sede tanto comoda che consente ai più di permettersi anche un breve sonnellino, mentre Carla, Cristina, Gianni e Stefania trattano acquisti in un minuscolo bazar.
A metà pomeriggio ci è riservato lo splendido spettacolo delle maschere, dove si esibisce un gruppo di una cinquantina di artisti locali, magnificamente addobbati con costumi e strumenti tradizionali, per inscenare musiche, canti e balli riferiti alle magie di questa terra lontanissima. Noi ci poniamo d’intorno. Pietro, Cristina, io e Gigi, seduti su una roccia, Mauro, Gianni ed Eva si divincolano per foto e riprese, gli altri si accomodano all’ombra di un enorme pianta. Un folklore che ci coinvolge e vuole essere coinvolto, fino a confondersi in una specie di ballo collettivo, documentato dalla richiesta di una foto di gruppo.
Sanga, il nostro prossimo villaggio, dista soltanto alcuni chilometri, che attraversiamo con le gip, lungo un mitico percorso, dove si alternano paesaggi diversi, sempre incastonati nella roccia, alcuni crudi e silenziosi, dove il silenzio è rotto soltanto dal candido vociare dei bambini, mentre altri si presentano più ameni, specialmente quando sono più vissuti da una popolazione che si affolla per assistere al nostro lento transitare.
L’ingresso a Sanga (ultimo villaggio prima dell’invalicabile scarpata) avviene attraverso una galleria naturale, all’ingresso della quale ci accoglie un gruppo organizzato di bambine e bambini che ci offrono un caro benvenuto, che si appiccicano letteralmente a noi, che hanno voglia di giocare, che molto volentieri accettano la proposta di Sandra, Carla e Stefania di esibirsi nel coro “Alouette, Jean de l’Alouette”, che le nostre signore dirigono sapientemente.
Dalla parte opposta della galleria si apre il mercato del locale artigianato. E’ qui che acquisto una tipica porta dogon, dopo una rapida trattativa, ad un prezzo tanto insignificante che per la prima volta, nella mia vita di “commerciante”, provo quasi vergogna, anche se sono certo di aver pagato il prezzo del valore locale.
La caratteristica più apprezzata del nostro albergo a Sanga è sicuramente l’allettante giardino, dove ci rilassiamo partecipando ad uno spettacolo folkloristico, stasera più intenso e ricco per festeggiare la fine dell’anno. Poi si prende posto al nostro tavolo, riservato per la cena servita a buffet. E siccome, appunto, è la sera dell’ultimo dell’anno, insieme allo spumante acquistato qualche giorno prima dal nostro Nenè, ci concediamo un po’ di allegra baldoria, procurando un certo “disturbo” ad una coppia di italiani, fino al punto che lui (il raffinato milanese) giunge addirittura ad azzardare una sorta di “intimazione” a “farla finita”, esclamando una specie di “…ora basta!”. Il milanese, ovviamente, non immaginava di avere a che fare con il toscano Ciampolini che (come sicuramente immaginerete), fu semmai sollecitato da quell’”…ora basta!”; e se non fosse stato trattenuto dalle forti raccomandazione di Sandra, non si sarebbe certo limitato a rilanciare appellativi che, vi assicuro, il milanese si era meritati fino in fondo. Sedeva ad un tavolo insieme ad una signora e per quanto fosse in vacanza e stasera fosse l’ultimo dell’anno, non mi pare abbia scambiato troppe parole (forse nessuna!) con la sua compagna.
La serata si conclude con lo scambio di messaggi per salutare insieme l’arrivo del nuovo anno… ed anche se ancora non siamo alla mezzanotte, si decide comunque di sistemarci nelle nostre camere, dopo una giornata particolarmente ricca di effetti e suggestioni, ma anche di tanta, felice e voluta fatica. Buon anno a tutti e buona notte.
1 gennaio
Anche stamani ci tocca una levataccia, dato che alle 7,30 è prevista la partenza. C’è un piccolo ritardo e così anche Carla e Gigi ne approfittano per non perdere l’occasione di una particolare porta dogon. La prossima sosta è al porto di Konna, dove ogni giovedì si tiene il mercato del bestiame. Soprattutto pecore ed asini, insieme naturalmente a copiose quantità di pesce . Un’area sterminata, riempita da barrocci e commercianti che provengono anche da villaggi lontani. Stamani siamo davvero i soli turisti, che si divertono perfino ad interessarsi dei prezzi e a trattarli … e quando pare che Pietro lo faccia seriamente, è rincorso dal venditore interessato a passargli un tenero asinello, umile ed ignaro.
Più tardi si visita la locale moschea; interessante, ma dopo quella di Djannè…!
Poi si prende la direzione Segou, utilizzando la comoda strada che attraversa l’intero Mali. Ed è su questa strada, per fortuna, che una delle gip subisce un guasto al radiatore. Non c’è verso, deve tornare indietro, in una specie di officina, per tentare la riparazione, mentre noi ci stringiamo e si riparte, dopo che Eva e Giuseppe (i nostri medici fidati) si sono prodigati nella cura di alcuni bambini, affetti da non so che cosa, che “approfittano” della nostra forzata sosta per circondarci e domandarci aiuto.
Il viaggio è lungo, ma scorre tranquillamente e felicemente, anche perché cogliamo l’occasione per ragionare con Bu Bu (salito sulla nostra gip) di alcuni temi importanti: di politica, delle prospettive di sviluppo e di come sia organizzata la prostituzione.
Si arriva all’ hotel Auberge di Segou quando ormai sono passate le 20,00 e non ci resta che rinviare all’indomani mattina la visita della città. La cena è servita all’aperto, anche se purtroppo non si riesce ad accontentare coloro che avrebbero preferito una bella pizza, prevista dal menu, ma non nel nostro, preventivamente ordinato. L’attesa, stasera, serve anche per stabilire il programma dell’indomani a Bamako e per concordare come ripartire la rituale mancia delle guide e degli autisti, mentre personalmente continuo a tenere d’occhio il milanese incazzato, anche stasera al nostro ristorante (come avrete capito non esiste troppa scelta) ed anche stasera completamente ammutolito.
2 gennaio
L’hotel Auberge è gestito da un libanese molto affabile, capace di accattivarsi la simpatia dei clienti, anche per la colazione molto ricca ed elaborata, per la quale ci complimentiamo insistentemente. La consumiamo nel giardino, mentre Nenè si sente di doverci ringraziare per aver sopportato, con piena comprensione, l’imprevisto guasto del radiatore.
Segou è uno storico porto fluviale e tranquilla città coloniale, dai grandi edifici sbiaditi dalle piogge e dagli anni, allineati lungo le banchine del porto, che visitiamo di buon mattino. Un quartiere molto particolare e suggestivo, elegantemente decadente, scarsamente abitato, proprio perché composto da palazzi pubblici inutilizzati, animato sopratutto dalle donne che stanno sciacquando le loro pentole sul Niger. Poi si prende la direzione di Segou Koro (la vecchia Segou), davvero meritevole di una visita. Visitiamo la parte centrale, dove si riscontrano ancora oggi i segni residui dell’impero bambara del XVIII secolo di Biton Mamary Coulibaly, che qui è sepolto in una tomba monumentale.
Bamako dista ben 230 chilometri. Un viaggio molto tranquillo, fin quando, prima di entrare in città, ci si imbatte in alcune cerimonie religiose, che si svolgono all’aperto ogni venerdì. C’è bisogno di accelerare per la visita del museo nazionale, ricco di preziose collezioni di maschere, statue e tessuti. E’ qui che ci attende Hama, il giovane capo dell’agenzia maliana che ha organizzato il tutto. Parla perfettamente italiano, perché in Italia trascorre almeno un mese all’anno. E’ presso il museo che si sosta per il pranzo, mentre Eva e Giuseppe si incontrano di nuovo con la signora italiana del Rotary Club, per definire alcuni aspetti della loro collaborazione, finalizzata a sostenere progetti di cooperazione in un villaggio nei pressi di Bamako.
L’ultimo appuntamento è con il caotico mercato “vociante”, nel cuore della città. Si fanno gli ultimi acquisti: io una maschera ed uno strumento musicale, Cristina e Stefania altri oggetti, mentre siamo tutti rincorsi da un invadente numero di venditori, fissi ed ambulanti.
A metà pomeriggio si piomba all’ hotel Mandè, dove ci viene assegnata una camera per le prossime ore. Riposo e preparativi per la partenza, ma anche ultime relazioni con lo scenario del tramonto dietro il corso dell’imponente Niger, distesi sulle poltrone che attrezzano l’area del parco e della piscina. Oggi, Silvia e Claudio sono partiti per la Patagonia e noi non resistiamo dalla voglia di acquisire (usando messaggini telefonici) gli opportuni aggiornamenti.
Alle 20,00 si parte per la cena di addio, che ci è servita presso quello che passa per il migliore e soprattutto tipico ristorante di Bamako: il Santoro. Arredo africano e specialità maliane che, in verità, non riescono ad impressionarci più di tanto. Eva e Giuseppe ci raccontano gli esiti dell’incontro con la signora del Rotary, completando così molte informazioni gia acquisite, anche se non sempre troppo approfondite. E soprattutto si soffermano sulle pratiche usate dalle ostetriche impegnate nei villaggi, dove vincono l’assenza dell’illuminazione con l’uso di una pila, che stringono in bocca.
Hama ci porta a conoscere la piccola figlia (3-4 anni) di nome Shirin, in ossequio alla nostra amica Shirin, della Shiraz Travel Tours. Inizialmente si mantiene particolarmente riservata, mentre poi si scioglie e non cesserebbe mai di divertirsi con noi. Ma dobbiamo raggiungere in fretta l’aeroporto. In fretta e furia, anche se poi resteremo quasi due ore in attesa per il ritardo dell’aereo. Un aereo molto scomodo, dove riusciamo ad appisolarci soltanto per brevi tratti, prima di raggiungere Algeri alle 5 del mattino. Qui ci si divide con la famiglia Vivoli (Gianni, Stefania, Francesco e Mauro) che prosegue per Roma… ed avrebbero proseguito senza le proprie valigie se non ci fossimo accorti noi del disguido provocato al check – in, inviandole ad Algeri. Pietro e Carla riescono a contattare Gianni, mentre Sandra ed Eva spiegano al personale l’accaduto e tutto si risolve per il meglio, mentre noi siamo accolti dall’amico Hafid, che sta aspettandoci per condurci all’ hotel, nel centro di Algeri.
3 gennaio
Raggiungiamo l’hotel Albert, nel centro della città, intorno alle 6.00 del mattino. La camera dove accantoniamo, provvisoriamente, tutti i bagagli è la n° 207. L’accoglienza è squisita e di lì a poco ci viene servita l’attesa colazione, prima di prendere confidenza con il cuore di Algeri.
Mi ero documentato (anche se un po’ superficialmente) su Algeri e avevo capito che la suggestione mattutina, offerta dall’alba che illumina i superbi palazzi bianchi, con spaziosi balconi, protetti da ringhiere in ferro battuto di colore blu, è semplicemente unica. Peccato, però, che stamani il tempo è sgradevole, il cielo è ceruleo e piovigginoso. Ma chi ci ferma, noi! Stamani si percorrono le vie centrali della città bassa, modellata da architetti francesi, con le sue piazze e le sue scalinate affollate, attraverso le quali ci arrampichiamo sui diversi livelli che articolano la struttura urbana di Algeri, animata da un crescente e concitato via vai. Un impatto gradevole per consumare l’intera mattinata, fino a quando, all’ora di pranzo, non ci assegnano le proprie camere. Ci concediamo una breve ricreazione (meritata, dopo una notte trascorsa in aereo), quindi alle 16.00 si raggiunge, in taxi, il Museo nazionale “Il Bardo”, che a quest’ora, però, troviamo chiuso.
Bene, così c’è tempo per una affascinante passeggiata lungomare, attraverso il quartiere Mustapha, sul porto che rappresenta la culla dell’originaria potenza barbaresca, dove elegantemente svettano interminabili porticati, sostenuti da colonne a doppia spirale, che circondano l’intera baia di Algeri, dove è facile riscontrare una tipica architettura di classicismo europeo.
Dopo tanti pasti a base di pollo, riso e miglio, un po’ di ottimo pesce, stasera, non ce lo toglie nessuno. Il migliore ristorante? Eccolo: il “Delfino”, allungato proprio sulla baia marina. Si raggiunge a piedi e con qualche difficoltà, per una pioggia intermittente, che ci costringe più di una volta a ripararci sotto qualche porticato.
Una cena con i fiocchi, con piatti preparati all’istante, tutto a base di pesce, servita con straordinaria maestria. E mentre si attende di dare avvio all’abbuffata, ci si mette in contatto con Hafid per prenotare una guida per l’indomani mattina, mentre alcuni ne approfittano per acquisire notizie sull’andamento di figli (noi, di Claudio e Silvia) e genitori. Il costo è pari a 19.00 euro e tutto funziona così splendidamente che si prenota una ricca “paella” per la sera successiva. Piove ancora, ma per fortuna si riesce a farci prenotare due taxi che, con appena 4 euro, ci riportano in hotel, quando ormai sono le 23.00 e la voglia di chiudere questa interminabile giornata è forte e condivisa assolutamente da tutti.
4 gennaio
Stamani siamo, di nuovo, tutti in perfetta forma, anche se restiamo in attesa per più di un’ora della guida che abbiamo prenotato per visitare la Casbah. Un tempo di attesa che serve anche per vincere la sfida con il tempo un po’ inclemente …e quando alle 10.00 il nostr’omo ci raggiunge, non dico che splenda il sole, ma almeno non piove più. Avanti tutta, avanti in direzione Casbah. La Casbah, il pezzo più importante e significativo della città, trasformatosi un po’ confusamente nelle sue quattro ere di vita: medievale, ottomana, barbaresca e francese. Oggi è decretata come Patrimonio mondiale UNESCO, una meta obbligata per tutti coloro che visitano Algeri. Un passaggio assolutamente sicuro, sicuro fin troppo, contrariamente a quanto si dica in giro. La Casbah non è un Suk arabo, un mercato confuso e indistinto, ma un vero e proprio quartiere, vissuto semmai scarsamente per le scarse comodità che è capace di offrire. Ma la scomodità non riduce la capacità di suscitare impressioni allettanti, giacchè proprio attraverso le sue strette viuzze, intercalate da terrazze e piazzette, è possibile affacciarsi sulle irripetibili viste sul mare, che ci offre (gratuitamente) scenari di alta spettacolarità. Sono gli stessi percorsi, i medesimi scorci che fecero meritare l’oscar allo storico film “La battaglia di Algeri”, del nostro indimenticabile maestro Gillo Pontecorvo. Ripidi saliscendi, attraverso strade segrete, dove nessuno deve attendersi pullulare di gente o sgangherate scorrerie di carretti, bensì una calma quasi “inquietante”, specialmente per chi come me aveva immaginato e sperato di immergersi in un irrefrenabile caos, magari aspramente vissuto. Niente di tutto ciò, commento mentre salgo le scale per arrampicarci su una terrazza che la nostra guida ci propone per dominare l’intera città, o mentre si visitano i piccoli anfratti storici, le singolari iscrizioni, gli indisturbati “museucoli” che documentano gli sconnessi passaggi della storia. Più avanti si impone “La Cittadelle”, la fortezza-caserma, oggi purtroppo vietata alle pubbliche visite. Poi si scende in Piazza dei Miracoli, affacciata sul mare, dove i più non resistono al richiamo di un’ottima pizza locale, che ci viene servita al prezzo di quasi 2 euro.
Il nostro ultimo pomeriggio è organizzato secondo le singole preferenze. Io, Sandra, Eva e Giuseppe decidiamo per la visita del Museo Nazionale del Bardo. Invano, anche stasera… e stasera perché (finalmente!) si scopre che il Museo è in restauro. Sandra (la conoscete, no!), non riesce a sopravvivere all’esigenza di intrufolarsi in un purchessia museo. Accanto al Bardo c’è quello delle “Antichità classiche e musulmane”, felicemente ospitato all’interno di un rigoglioso giardino coloniale. Stasera tocca al classico, che con classe si visita meticolosamente, quasi oziando nell’andirivieni delle sue sale solitarie, dove io mi diverto, insieme ad un giovane custode che in proposito mi interroga, ad indovinare le più diverse e svariate capitali dei vari Paesi del mondo.
La passeggiata del rientro scorre esattamente lungomare, dove con Giuseppe ci si appiccica sotto un minuscolo ombrello precario, mentre Carla e Gigi, Cristina e Pietro, riposano tranquilli in hotel, che anche noi si raggiunge intorno alle 19.00.
La cena è prenotata per le 20.00, ma già a quest’ora i nostri amici cuochi stanno suddividendo e soppesando i vari ingredienti che arricchiranno la nostra attesa Paella. Un piatto speciale, che riuscirà, tuttavia, a soddisfare soltanto in parte le nostre esigenti aspettative.
5 gennaio
Stamani, il compare Hafid ci guida per un altro pezzo di città, per visitare l’esterno della Cattedrale del Sacro Cuore (anch’essa in restauro), un prezioso centro artigianale, il Monumento nazionale. Opere meritevoli, ma soprattutto per l’offerta di scorci panoramici che dominano l’intero, ampio golfo di Algeri. Due ore trascorse sapientemente, anche con avveduta rilassatezza, prima di dirigerci verso l’aeroporto, dove alle 13.30 avremmo dovuto decollare. Si parte con due ore di ritardo, anche se una sarà recuperata in volo e così alle 16.30 siamo a Roma, dove il nostro autista ci attende per condurci a Certaldo, via Civitavecchia, per poi proseguire fino a Chiesanuova.
Insomma, finisce così un’altra vera avventura, una di quelle capaci di convenire con Annemarie Schwarzenbach, quando sostiene che:
“Il viaggio, che per molti è
solo come un bel sogno,
un gioco seducente, la liberazione
dal quotidiano, la libertà
per eccellenza, può, in realtà,
essere anche impietoso;
ma sempre una scuola per abituarci
all’inevitabile corso della vita,
all’incontro e alla perdita.”
E così sia davvero, davvero, mentre la nostra immaginazione corre, corre per incrociare il piacere del mitico percorso della discesa in Patagonia, che Claudio e Silvia (ancora una volta mirabilmente intenta ad intelaiare questo mio povero resoconto maliano, dopo che Sandra ne ha vidimata la correttezza formale) ci raccontano come semplicemente fantastica.