Raccontami una storia…
Essere una che racconta storie, non è una buona presentazione. E’ una società la nostra in cui contano i fatti e non le parole, dominata da una cultura dell’avere e del possesso, in cui le vite sono piene di cose e dei vuoti di troppe solitudini.
Ma ho scelto di essere una raccontatrice.
Da bambina ero appassionata delle “cose di guerra” che raccontava mia nonna; nel raccontarle tentava di esorcizzare le tante paure e privazioni che le erano costate, mentre io nell’ascoltarle imparavo a combattere i miei fantasmi. Così faceva bene a tutt’e due.
L’adulto che racconta una fiaba si accosta al suo sé bambino, il bambino compie un viaggio in un altrove dove tutto è possibile e, alla ricerca dello stupore, tutti e due tornano più forti di prima.
Il mondo, in qualsiasi epoca, ha sempre avuto bisogno di un altro mondo.
Spesso non ha importanza ciò che si racconta, o se ciò che si racconta sia vero o no, quanto l’effetto che il modo di raccontare ha sull’immagine di sé di chi narra e di chi ascolta.
Basta raccontare: unirsi attraverso la costruzione di un ponte, fatto di parole parlate e di parole ascoltate, che provoca comune appaesamento e complicità: si sa che si raccontano storie e poco interessa che siano vere o no; sono vere perché raccontate in quella intima atmosfera, resa calda dai fiati delle bocche vicine, dal calore della fiducia, della cura e dell’amore.
E in questa società piena di tante disincantate solitudini c’è un gran bisogno di fiabe e di storie raccontate. Perché il raccontare costruisce un rapporto stretto, di vicinanza corporea, spesso inesistente nella quotidianità più comune. Questa società che esibisce il corpo come valore, sembra quasi aver paura dei rapporti ravvicinati. Gli individui sono lontani e sembrano temere quel comunicare istintuale del corpo.
La parola parlata invece aiuta ad avvicinarsi, a riscoprire il primitivo piacere del calore dei corpi vicini, favorisce alleanze e complicità fra generazioni diverse. Unisce e tiene strette persone altrimenti distanti.
E’ il possesso di uno stile affabulatorio, fatto di pause e di parole, di grida e di silenzi, che investe tutto il corpo ad attrarre e catturare l’attenzione, ad affascinare e incantare. E’ per questo che la fiaba deve essere raccontata più che letta e chi racconta deve essere emotivamente coinvolto. Non si può raccontare per dovere, si racconta solo per amore.
La voce penetra il corpo attraverso le orecchie, così provoca risonanze nel corpo e nello spirito. Le espressioni verbali si plasmano con quelle non verbali e tutto si fonde in quel calore che rende il corpo casa. E’ il contatto corporeo ad avere il potere di incantare, in un mondo dove domina il disincanto.
Quindi la fiaba va oltre le banalità della vita e supera le informazioni che trasmette, perché comunica la non solitudine. Realizza la com-passione – il comune ridere, piangere e soffrire – fra due persone unite dal filo del discorso fiabico. Si crea una situazione di confidenza e di complicità, di fiducia e di lealtà.
Così il raccontare diventa una sorta di pedagogia delle emozioni che rafforza la capacità di introdursi nell’universo fantastico e facilita la costruzione di una mente aperta, non più prigioniera dei confini della realtà.
E’ la voce a travalicare il significato stesso delle parole, e la voce è suono e quindi forza archetipica.[1] Con le parole, le pause, i silenzi, il farfugliare e lo schioccare della lingua, i brividi e i sospiri, soprattutto con la vocalità non discorsiva, si determina una configurazione mentale e affettiva, un modo di pensare simbolico.
La fluenza della voce crea un filo che unisce e avvolge chi parla con chi ascolta, nel ritmo e nell’intonazione che variano, nei silenzi che creano attese e insegnano a non averne paura. Così la significazione della fiaba è sempre diversa e imprevedibile, porta dal dove a sempre nuovi altrove, forte di un’energia magica e primordiale. Perché la scrittura della fiaba è una “scrittura ad alta voce”, “è il linguaggio tappezzato di pelle, un testo in cui si possa sentire la grana della gola, la patina delle consonanti, la voluttà delle vocali, tutta una stereofonia della carne profonda: l’articolazione del corpo, della lingua, non quella del senso, del linguaggio”.[2]
Se il racconto è filtrato da un medium, questo impedisce la relazione, intanto perché ostacola l’emissione di una qualsiasi risposta. Gli attuali surrogati della narrazione orale aumentano il senso di solitudine e di isolamento in cui il bambino è lasciato, perché anche la macchina tecnicamente più perfetta non è capace di costruire quel ponte caldo dell’oralità; anzi le ansie aumentano, alimentate dal bisogno di essere amati, dalla paura di non essere considerati e di essere abbandonati.
Il succo vitale sta nel legame che si crea fra chi parla e chi ascolta, è la relazione personale che aiuta a sopportare l’ansia della separazione. L’eroe potrà uscire da solo nel mondo, dopo aver sperimentato la forza del legame di una relazione e solo una relazione viva e vera può diventare significativa.
Il piacere che il racconto provoca, le emozioni e l’incantamento che scaturiscono, sono fondamentali. Perché la fiaba è opera d’arte e come ogni opera d’arte è diversa nel suo significato più profondo in ogni persona e per ogni persona è diversa in ogni età della vita.[3]
Anche per questo i bambini amano sentirsi raccontare più volte la medesima fiaba: il fenomeno della reiterazione è rassicurante, attutisce la separazione provocando il piacere dell’attesa di quella narrazione che sarà sempre uguale e diversa. Provoca appaesamento, in quanto appartiene alla quotidianità, ma insieme fa nascere la curiosità verso ogni diversità.
E’ come l’esecuzione di una partitura, sempre diversa nella sua uguaglianza.
…e allora dove andare a pescare le storie da raccontare?
Per l’oggetto del racconto, la scelta è ampia e varia: si può attingere al mito, sempre inesauribile, alla fabulistica classica, alla tradizione e alla realtà.
Ma le cose vere del mondo narrato sono comunque diverse dalle cose vere del mondo reale. E quindi più vere, perché aiutano a capire e affrontare quelle vere.
I racconti individuali e i racconti collettivi delle comunità influenzano il formarsi delle identità personali e rafforzano il senso di appartenenza. E’ il caso delle “cose di guerra” che narrava mia nonna: è la memoria che si trasmette nel racconto ed è sulla memoria che si costruiscono le fondamenta dell’identità. Io sono io, risultato di quei fatti, di quelle sofferenze e di quelle privazioni; io ho rispetto di quella storia perché è anche la mia storia. Quindi nell’ascoltare mi candido come sua narratrice per le generazioni che verranno. E’ una questione di radici, di appartenenza, di continuità di cultura.
La cosiddetta fiaba tradizionale è il risultato di una rielaborazione raccontata innumerevoli volte da adulti diversi a bambini diversi: si plasma nel rapporto interpersonale, si modifica nel togliere o nell’aggiungere particolari. E’ ancora la memoria a far da protagonista, ma in questo caso lavora creativamente creando varianti, anche per conformare il racconto alle esigenze del momento. L’ideale sarebbe che “la narrazione di una fiaba fosse un evento interpersonale con la partecipazione del bambino e dell’adulto come partner uguali”.[4] Allora il racconto può diventare un’esperienza condivisa e il reciproco apporto allo svolgimento della narrazione può servire per unire.
Chi racconta dovrebbe anche tener presente i sentimenti evocati quando da bambino gli veniva raccontata la medesima storia. Rivivere quei sentimenti serve a unire ancora di più e il bambino non si sentirà solo quando dovrà affrontare la realtà. Ha simbolizzato una presenza, un sostegno che usa nei momenti di bisogno. La paura aiuta a confrontarsi con la paura, le ardue prove possono essere concepite come avventure che invitano a misurarsi con i problemi della vita, le situazioni semplicizzate infondono fiducia per cercare di sciogliere i nodi della vita ed è importante immaginare il proprio futuro in modo ottimistico.
Insomma il “c’era una volta”, indipendentemente da “cosa c’era”, fa sempre bene.
Ma “c’era una volta”, quando? Tanto tempo fa, non si sa bene e poco interessa: così si galleggia in un’atemporalità dove tutto può accadere, in un incantesimo che provoca incantamento, ma serve comunque per ritornare alla realtà più forti di prima. Mito, tradizione e storia.
Anche la narrazione delle vicende più realistiche non è mai realistica, perché l’intento non è quello di comunicare informazioni, ma sentimenti ed emozioni, comunque sempre processi interiori. E non è mai un racconto neutrale, perché vuole veicolare valori: c’è sempre un eroe che raggiunge il suo successo e un cattivo con la giusta punizione.
Anche le “cose di guerra” stavano in un “tempo di guerra” che non aveva date precise, ma contesti: “c’era il grano appena segato”, “un’estate così calda non s’era mai avuta”… Ancora appaesamenti.
Fiabe popolari
Ma le cosiddette fiabe popolari, in una società così mutata e mutante come la nostra, sono ancora proponibili? Sì, se sono capaci di parlare simultaneamente a tutti i livelli della personalità. Sì, per tanti altri motivi: perché offrono esempi di soluzione delle difficoltà della vita, arricchiscono la vita interiore, aiutano a trovare il senso della propria individualità e del proprio valore, nutrono l’immaginazione e insegnano a strutturare i sogni a occhi aperti, fanno capire che la vita non è tutta rose e fiori, e che il lato oscuro esiste in ciascuno di noi.
La tradizione orale, che si tramanda di bocca in bocca, è sempre stata un grande momento di socialità familiare, caratteristico delle veglie in cui tutti si riunivano, in cui il narrare era spesso accompagnato dal fare, soprattutto dal fare delle donne che tagliavano e cucivano di bocca e di mano.
L’insieme delle tradizioni orali rappresenta la continuità di un modo di vedere il mondo, una certa cultura.
Adesso le nuove tecnologie non dovrebbero esautorare la magia del raccontar fiabe. Ascoltare attraverso un medium, è altra cosa. L’importanza del raccontar fiabe ai propri figli e nipoti, direttamente, assume almeno due valenze fondamentali per la formazione dell’identità: una insita nella fiaba stessa, l’altra nel procedimento stesso del raccontare, come ho cercato già di spiegare.
La fiaba è un’eredità inestimabile perché è costruita sul patrimonio popolare tradizionale, da cui traggono la loro origine i più profondi archetipi.
E la narrazione della tradizione popolare serve alla trasmissione degli archetipi della cultura di appartenenza. E’ un modo per combattere l’omologazione planetaria a cui sembrano destinati i nostri bambini, è un modo per far nascere il senso delle radici e della comunità. Perché fa parte di una comunità chi ha e mette in comune doni (cum munibus), i doni della storia e delle cultura di appartenenza. Chi ha il “compasso dell’orizzonte” (per dirla con Remo Bodei) ben piantato nella propria cultura, potrà diventare cittadino del mondo, perché non avrà paura di aprirlo verso mete via via più lontane. E’ il cum, il senso dell’insieme, che va costruito con ogni mezzo, anche e soprattutto con le fiabe. Altrimenti il senso dell’uguaglianza rischia di diventare omologazione.
E la tradizione è importante non solo perché deve essere conosciuta e conservata, ma anche perché deve essere sviluppata: qui stanno le radici di un futuro migliore. La fratellanza derivante dal senso della comune appartenenza serve a non aver paura degli altri, a considerare i confini come segni che possono e devono essere scavalcati, per aumentare con ibridazioni feconde la ricchezza della propria cultura.
Il mondo delle fiabe è un mondo ricco di significati, spesso riconducibili a una comune umanità che attraversa le più diverse culture. E’ una catena che si snoda di persona in persona e che sintetizza mirabilmente quella forte stratificazione culturale sedimentatasi con lentezza, decantandosi nel tempo negli archetipi culturali.
Risvegliano emozioni, comunicano significati nascosti, aspirazioni, sogni, lotte, contrasti. Alimentano sentimenti, paure e angosce, ma in fondo, il lieto fine rinnova la fiducia nella vita. Si sa che non è vero, ma è segno di un approccio ottimistico. Aiutano nella ricerca del senso della vita, appagano quegli auspici. Anche se sappiamo che non saremo per sempre felici e contenti, ci piace crederlo ed è buon segno. Si rivolgono ai bambini usando il loro stesso linguaggio e adottano un ordine di giudizio basato sulla rassicurante distinzione fra bene e male. Fanno bene anche agli adulti perché li aiutano a continuare a vedere il mondo con gli occhi di un bambino.
Con le fiabe si intrecciano insieme – genitori e figli – i fili della memoria collettiva, quei fili tenui e tenaci, essenziali per la formazione di una persona che voglia percepirli come parte integrante della propria identità.
Vivere significa dare senso alla vita e ogni generazione dà senso diverso alla propria vita, perché elabora in modo autonomo valori e principi attinti nelle propria famiglia. Intelletto ed emozioni dialogano e si integrano sviluppando il retaggio culturale che li ha generati. In qualsiasi società si possono rintracciare soluzioni diverse ai problemi interiori degli esseri umani, ma qualsiasi essere umano deve imparare a coniugare miti e valori della sua tradizione nella contingenza della sua storia, perché miti e valori hanno in sé un’essenza etica universale.
Le medesime fiabe in ogni tempo hanno attraversato qualsiasi strato della società, si sono rivolte a poveri e a ricchi, a colti e ignoranti; hanno cambiato il loro registro, ma hanno conservato il loro potere di vivificare l’immaginario collettivo, con la loro carica trasgressiva e liberatoria.
La lotta contro le gravi difficoltà della vita è inevitabile ed esistono grandi differenze fra le persone, questa consapevolezza aiuta a scegliere quale tipo di persona si vuol diventare da grande e il succo di queste fiabe alimenta la fiducia di poter riuscire. Così da giovani vagabondi del mondo possono nascere adulti costruttori di nuovi significati.
Perché una storia riesca davvero a catturare l’attenzione di un bambino deve divertire o suscitare curiosità, perché lo aiuti a crescer deve stimolare la sua immaginazione e sviluppare la sua intelligenza, aiutarlo a superare le ansie che lo turbano. La moderna letteratura per l’infanzia si basa molto sul divertimento o sulla curiosità, ma spesso nega o tralascia i grandi conflitti, per cui il bambino non viene aiutato a superare quelli che la vita gli riserba.
Fate e streghe
Il mondo delle fiabe è popolato di streghe e di fate: la paura e l’attrazione, il male e il bene, il negativo e il positivo, il brutto e il bello, la notte e il giorno… ambedue visibili con gli occhi dell’immaginario.
Ma è così anche il mondo della realtà.
Le prime fate della vita sono proprio le madri che trascendono e si fanno fate nel raccontare di streghe e di fate. Necessarie ambedue per la strutturazione dell’identità. Ambedue prese da incantamenti e capaci di incantare. Creatura di terra l’una e creatura di aria l’altra, ma ambedue capaci di volare, l’una con la scopa, l’altra con le ali. Comune è l’aspirazione a trascendere, a non essere prigioniere dei confini troppo stretti di una realtà considerata povera e soffocante.
La fata è una figura caratteristica della mitologia popolare, dotata di poteri magici e per lo più benefici. E’ rappresentata come donna provvidenziale e benefattrice: dal tardo latino fata fatorum, neutro plurale di fatum, destino, è quindi dea del destino. E’ una donna favolosa, dotata di genio e magia, sempre un po’ fata e un po’ strega nello stesso tempo, come Morgana, Circe, Armida, Alcina…[5]
Fatato è un mondo magico e incantato, e fatale è qualcosa di prescritto dal destino e quindi inevitabile, ineluttabile. Per questo anche la fata fa sempre un po’ paura. E’ una donna ingovernabile, anzi governa a suo modo sfidando le consuetudini.
Anche oggi si dice femme fatale per definire una donna dotata di irresistibile fascino e forza di seduzione. La fata è comunque una permanenza in tutti i tempi e in tutte le culture, è un archetipo del vissuto e dell’immaginario collettivo, è un reiterato tentativo per cercare di definire il femminile.
Diverso percorso dell’identità femminile è quello della strega: fra le varie accezioni, è prevalente quella di adescatrice; infatti stregare e fatturare, significa anche incantare. Il sortilegio è quindi incanto e la fascinazione e l’ingovernabilità da parte del maschile è ciò che le accomuna.
La fiaba è un genere narrativo popolare che, a un certo punto della storia dell’umanità si incontra con la tradizione epica e cavalleresca e così si aristocraticizza. Così anche la fata, nata nel folklore, si innesta nel letterario con la duplice identità di madrina e di amante.
Il Medio Evo è una tappa importante per la rielaborazione del femminile che ne favorisce lo sdoppiamento in due figure diverse e parallele: Morgana e Melusina. Ambedue assumono un’importanza basilare nell’immaginario collettivo, sia maschile che femminile. C’è sempre e comunque bisogno di opposti.
La fata è una figura ambigua e polimorfa, dalle identità plurime, con gli incantamenti e le sue metamorfosi richiama i meccanismi della vita e della morte. E’ una sorta di grande dea, che ricorda un tempo di perfetta parità fra uomini e donne, ed è collocabile nella sfera del meraviglioso: sta nel mondo e nell’altro mondo, nel dove e nell’altrove, nel crocevia dell’incontro fra l’umano e il divino. Per questo assume forme meravigliose, ma anche bizzarre e inquietanti, muta di nome e di aspetto, ma rimane presente un sostrato di identità plurima: d’altra parte gli archetipi non hanno mai avuto un solo volto o una sola identità, e spesso hanno trovato il loro senso proprio nell’unione degli opposti.
E allora la fata, la signora dai mille nomi, diventa unione degli opposti che tutto connette: Luna dalle due facce, Iside, mito della fecondità alla base del mondo, sirena seducente e misteriosa.
Discende direttamente dal mito greco delle Parche, le Moire per i latini; le madrine e amanti che accompagnano gli eroi nei loro viaggi sono moltissime, dalla classicità greca fino all’età romantica, tutte facilmente riconducibili al culto di Iside.
Anche l’aspetto iconografico mantiene questa immagine duale: orrida e sublime, bella e deforme, voluttuosa e truculenta.
Semidea, mater mutata: scardinatrice della gerarchia del potere maschile, è presente nelle culture di ogni luogo e di ogni tempo, e trae la sua forza dalla natura per mezzo della sua intelligenza.
Medusa diventa l’emblema della bellezza trasformata in orrore: fanciulla bellissima che una notte Atena sorprese mentre si accoppiava con Poseidone, così, sdegnata, la trasformò in un mostro.
E’ la donna che pietrifica col suo sguardo, il suo fascino colpisce, avvince e plagia. Fata e strega, nello stesso tempo, ancora.[6]
Nella società occidentale strega è speculare a Medusa che, nell’accoppiamento con Lucifero-Satana, simbolo dell’assoluto, produce conoscenza.
Medusa è la più fragile delle tre Gorgoni, e tre è un numero magico, tre sono anche le Parche latine. Lamiae, maleficae e striges sono i termini usati nella tarda antichità per indicare le donne dedite al maleficio.
La letteratura classica è popolata di donne dedite ai malefici: le Maghe di Teocrito, le Graie e le Gorgòni raccontate da Esiodo nella Teogonia, le Erinni, le Furie della mitologia romana, che nacquero dal membro di Urano, moltissime sono anche quelle narrate da Omero: come Circe, anche lei fata e strega nello stesso tempo, splendida e sensuale adescatrice.
Nella civiltà greca e romana coesistono due specifiche accezioni della strega: sacerdotessa e donna dedita alle brame d’amore. Un forte legame unisce la strega moderna con Medusa: Làmia e Medusa rappresentano il senso del bello e del sublime, coniugato insieme al terrifico.
Insomma streghe o fate che siano, o tutte e due secondo le occasioni, nella mutevolezza che le contraddistingue, servono comunque alla definizione del femminile e sono preziose nell’aiutare a strutturare l’identità di genere.
Nella maggior parte delle fiabe occidentali la bestia è di sesso maschile e può essere liberata dall’incantesimo, soltanto grazie all’amore di una donna.
Ancora un femminile inteso come cura, accadimento, sollecitudine, dedizione a…
La fortuna di essere mago
La parola mago ha sempre avuto un significato positivo, coniugata al maschile, fata perde la sua ambivalenza: il mago è infatti un personaggio favoloso, dotato di poteri magici e di virtù soprannaturali. Tanto che “essere un mago” nella musica, nelle arti, nella parola, ecc., equivale a essere insuperabile; nel linguaggio figurato infatti diventa sinonimo di fuoriclasse e campione. Come campione delle vendite di libri e di incassi cinematografici è il giovane mago Harry Potter.
La nostra società considera poco il fiabesco e, improntata a un disincantato realismo, disprezza la fantasia. Invece “se veniamo privati di questa risorsa naturale, la nostra vita rimane limitata; senza fantasie che ci diano speranza, non abbiamo la forza di affrontare le avversità della vita”.[7]
Ecco che la saga di Harry Potter offre ai preadolescenti proprio ciò di cui hanno maggior bisogno: in una società che non prevede più riti di iniziazione, assume una grande importanza l’identificazione in un personaggio che intraprende il viaggio della vita e conclude ogni avventura con una nuova consapevolezza, conoscenza di sé e fiducia.[8] E passando proprio dal fiabesco.
D’altra parte ogni fiaba si conclude con una trasformazione del protagonista e così abitua ad accettare e gestire le trasformazioni del corpo e della mente caratteristiche di una persona in fase di crescita. Esempio dell’avventura del crescere, la fiaba sembra essere radicata in quei riti iniziatici che ne hanno, forse, rappresentato l’origine.
Il piccolo umano è, tra le specie animali, quello che acquisisce la propria indipendenza in tempi più lunghi; il processo di separazione dalla famiglia d’origine è infatti una delle imprese più difficili e in questi nostri tempi è sempre più dilazionato.
Propp individua nell’allontanamento da casa, che ha sempre scopo di ricerca, la prima funzione della fiaba; l’uscita dalla famiglia d’origine rappresenta il primo misurarsi con l’autonomia e con i pericoli del mondo esterno.[9]
Se la famiglia rappresenta un contesto positivo, aiuta l’emancipazione anche quando è lontana e resta presente come rappresentazione interiore che accompagna il processo di crescita e di separazione. La sua immagine positiva, come nel caso di Harry Potter, diventerà una risorsa cui attingere nei momenti di bisogno. E’ normale in ogni preadolescente, dopo l’identificazione coi genitori, rivendicarne il distacco, anche con forme di insofferenza, ma per giungere a forme più evolute e gratificanti di sé, occorre passare dalla dipendenza a forme di flessibile confronto.
Per gli eroi di ogni fiaba riveste grande importanza l’allontanamento, l’uscita dalla famiglia per misurarsi col mondo esterno; per gli eroi di questo nostro mondo il processo di separazione dalla famiglia d’origine diventa una delle imprese più ardue. Farsi una vita propria, indipendente dai genitori è sempre più difficile, paradossalmente proprio per la carenza di ruoli genitoriali autenticamente esercitati. La paura di essere assenti e inadeguati fa diventare i genitori iperprotettivi, senza rendersi conto che per i nostri ragazzi non è possibile diventare grandi e autonomi senza misurarsi direttamente con le difficoltà della vita.
Conseguire l’indipendenza, la maturità sessuale e l’autorealizzazione, raggiungere una vera autonomia, attraverso forme più evolute e gratificanti del sé diventa un’impresa da “maghi”.
L’attaccamento eccessivo e prolungato nel tempo alla famiglia riduce la capacità di risolvere i problemi, di sviluppare l’iniziativa, di acquisire una personalità propria per essere padroni del proprio destino; per assicurarsi la propria identità è necessario sopportare privazioni e sconfitte, per diventare una persona indipendente occorre uno sviluppo interiore e una forza capace di affrontare pericoli con coraggio e determinazione.
E questo è proprio ciò che auguriamo ai giovani “maghi” dei nostri tempi.
[1] Bologna C., Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna 2000.
[2] Barthes R., Il piacere del testo, p. 126, in Barthes R., Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, a cura di Ossola C., Einaudi, Torino 1999.
[3] B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe. Feltrinelli, Milano 2007 (11)
[4] Bettelheim B., Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano 2007 (11) p. 149.
[5] Lomi C., Alle origini della fata. La donna e la sua psiche allo specchio, Edizioni della Meridiana, Firenze 2004.
[6] Lorenzi L., La strega. Viaggio nell’iconografia di maghe. Malefiche e fattucchiere, Centro Di, Firenze 2005.
[7] Bettelheim B., op. cit. p. 120.
[8] Ricci R., Harry Potter l’avventura di crescere. Psicologia dell’adolescenza e magia della fiaba, EDUP, Roma 2005.
[9] Propp V. Ja., Morfologia della fiaba, Newton Compton, Roma 1992.