Viviamo in una società in cui l’economia, il mercato, l’avere, regolano i rapporti fra le persone e fra i popoli, in cui il ragionamento è stato sostituito dal sondaggio, le idee dalle statistiche.
Se uno non possiede nulla, non è nulla, ciascuno è quanto più ha, e a dare piacere è il possedere. Non certo l’essere.
Assistiamo a un preoccupante trionfo dell’egoismo, in cui si perde la profondità dell’io, ma l’io viene difeso con barriere di ogni tipo: per cui troviamo un vasto campionario di esseri isolati, ansiosi, depressi, incapaci di indipendenza e di relazioni, sempre più lontani dalla felicità. In giro vediamo poche persone che sorridono.
Il paradosso ancor più preoccupante è che le classi lavoratrici sembrano avere il medesimo orizzonte del sistema di dominio in cui sono inserite.
I processi educativi (scuola extrascuola e famiglia insieme) dovrebbero costruire una tensione etica, lavorando sullo strato profondo della coscienza.
Insomma l’essere non si contrappone al fare, ma lo completa.
Può essere l’economia di mercato, o meglio il profitto, a regolare i rapporti fra le persone, le classi, i popoli?
Quale posto hanno nella nostra società il gratuito, la creatività, la qualità, la contemplazione, il tempo del silenzio, la cura dei sentimenti?
Che fare perché abbiano riconoscimento e valore?
E come è misurabile, per esempio, il silenzio, se tutto si misura in termini di prestazione, lavoro, merce.
Il concetto di lavoro produttivo è pervasivo di tutte le pieghe del reale, appartiene alla sfera quantitativa, ma il lavoro della conoscenza, che appartiene alla sfera qualitativa viene considerato lavoro produttivo?
E se lo fosse, come mai non è quantificato in termini di mercato? O comunque è sempre svalorizzato?
Può essere equa una gerarchizzazione delle conoscenze in base all’utilità?
Sembra che a un progressivo ampliamento dell’orizzonte corrisponda un progressivo restringimento della considerazione sociale.
E’ stata l’economia a imporre il suo punto di vista? E perché?
E l’economia da quali forme di pensiero è regolata?
Mi viene il sospetto che siano forme di pensiero escludenti, in quanto direttamente pensate in misura del potere stabilito.
Può definirsi l’economia una scienza pratica che accomoda le risorse all’utilità? ma all’utilità di chi?
Forse di un determinato assetto socio-culturale che si ritrova a essere più forte perché più proprietario, insomma dominante.
E allora l’economia è funzionale al mantenimento di un determinato assetto di potere?
Lo sviluppo del sistema economico è governato dalla domanda “che cosa è bene per le persone”? o “che cosa è bene per il sistema”?
Nessuna attività umana, nemmeno l’economia può pretendere di essere la sola guida dell’attività umana.
Non può essere un solo punto di vista a dominare.
Ma nell’antichità romana non era diverso: l’otium era padronale e il negotium servile?
Gli antichi apprezzavano poco il pensiero economico e più quello etico-metafisico.
E’ stata l’invenzione delle macchine a provocare questo ribaltamento?
Per cui l’avere ha cominciato a prevalere sull’essere?
Come mai i dati numerici, oggettivi, quantitativi, statistici sono cominciati a contare sempre di più?
Può essere l’utile il metro e la misura di tutte le cose?
E allora è l’ordine, l’uniformità a contare?
E dove sta l’affascinante avventura del caleidoscopio, che gioca sul molteplice, sulla diversità, sul disordine creativo?
La cultura viene assunta dalla comunità organizzata con la mano sinistra, con le risorse che avanzano, è il superfluo, l’accessorio e quindi secondario e marginale, disutile.
Anzi, a volte la cultura viene percepita con sospetto, l’intellettualità viene sentita come sovversiva.
E allora è forte la necessità di attivare processi di riconoscenza-riconoscimento, promuovendo la valorizzazione e l’incrocio di sguardi diversi.
La necessità di ascoltare i bisogni dell’essere che ricerca spazio, autorità, considerazione sociale.