“L’arte è la percezione dei misteri dell’irrazionale attraverso mezzi razionali”
Vladimir Nabokov Opinioni forti
C’è un racconto di Jorge Luis Borges[1] che narra di un re e di un poeta.
Il re, umiliato il nemico, chiede al poeta di immortalare il suo trionfo con un’ode celebrativa. Il poeta, lieto e orgoglioso del compito, espone un dettagliato resoconto mettendo in campo le sue doti narrative, la sua preparazione nella metrica, tutto il suo sapere.
“Le leggi mi autorizzano a prodigare le voci più arcaiche della lingua e le più complesse metafore… Posseggo le virtù delle erbe, l’astrologia giudiziale, la matematica e il diritto canonico…”
Il re concede un anno di tempo per quel poema che canti le sue imprese e ne conservi per l’eternità la memoria. Trascorso un anno, il poeta si presenta, fiero del suo lavoro: contiene immagini mirabolanti, raffinate metafore, tutti i saperi della sua cultura.
“Hai adoperato con destrezza la rima, l’allitterazione, l’assonanza, la quantità, gli artifizi della dotta retorica, la sapiente variazione della metrica, ma… Tutto è giusto, eppure nulla è successo.”
Insomma il poema è perfetto, ma non palpita di vita, è lingua morta.
L’esattezza e la precisione didascalica hanno il sapore di un’eccellente riproduzione dei fatti, ma gli animi degli ascoltatori sono rimasti muti e inerti. Il re chiede quindi al poeta di rimettersi al lavoro, e questi, dopo un anno, si presenta con una composizione più breve, dove le regole della comunicazione formale sono sconvolte e profanate: non più un monumento degli eventi, ma un nuovo evento. Qui il cantore ha impiegato tutto il carico di creatività e ne è orgoglioso.
Ma il re chiede ancora qualcosa di più sublime e concede di nuovo un anno di tempo.
Trascorso quel periodo il poeta torna, in preda a un sorta di rapimento mistico, e pronuncia il poema consistente in una sola riga.
Questa volta la sua scrittura rientra nell’ambito del sacro, è simile a una preghiera segreta: è il regno del poetico, dove la lingua quasi scompare, perché più niente deve essere capito, ma tutto sentito.
Il re in questo racconto assolve un compito importantissimo: paragonabile alla buona coscienza di chiunque abbia a cuore la qualità della comunicazione, incita il poeta a migliorare la sua ode, a plasmare la forma del suo scritto. Chiede qualcosa che non sia trascrizione di fatti, ma una rivisitazione, pur aderente alla realtà, ma che trasmetta qualcosa di più importante.
Così la narrazione della scienza non può essere solo una riproduzione delle regole convenzionali.
L’obiettivo è la comunicazione o l’esatto rapporto fra parole e cose?
Se è la comunicazione, allora lo scrivere di scienza diventa un progetto di condivisione del sapere che coinvolge l’autore e attinge alla sfera della sua soggettività. Una narrazione non è solamente un insieme di frasi e di concetti, ma presuppone, fra gli elementi del racconto, una relazione che realizza una trasformazione dei contenuti. Ciò che entra in gioco è la relazione fra gli eventi.
Si può parlare di scienza con un romanzo, un articolo di giornale, una piéce teatrale? E’ proprio questo che ci domanderemo.
Il matematico Enrico Giusti, percorre più strade per presentare questa disciplina in modo più accattivante: inventa il museo della matematica; va a rintracciare l’importanza della sua scienza nella vita quotidiana nell’intelligente opera La matematica in cucina[2] e ricorre, così come Mario Poli fa per la fisica, alla mediazione teatrale per una maggiore divulgazione. In ambedue i casi complementare è il lavoro del regista Angelo Savelli per assicurare un risultato godibile senza sminuire il rigore.
Insomma azzarderò una prima risposta: una cosa è il momento specialistico della ricerca, specifico degli addetti ai lavori, con un linguaggio interno appositamente costruito, altra è la comunicazione.
Fare scienza è anche comunicare scienza, perché la scienza pensa, ma deve fare soprattutto pensare.
La cultura gentiliana ha iniziato una separazione e gerarchizzazione fra scienza e letteratura, fra scienza e arti che continua ancora oggi.
Se la scienza è un tentativo di conoscere il mondo attraverso diversi occhiali, la letteratura è un tentativo di raccontare il mondo, a cui lo scrittore dà significato insieme al lettore.
Scienza fa pensare a regola, numero, legge, metodo, esercizio, formula, dogma, nozione… ma anche idea, ricerca, sperimentazione, scoperta… Letteratura fa pensare a lettere, parole, ma ad literam significa precisione, e anche idea, ricerca, sperimentazione, scoperta…
Parlare di scienza è parlare anche di persone, di scienziati e delle loro scoperte, è parlare di un’attività che ospita conflitti intellettuali, opposizione di modelli teorici; la storia della scienza è una storia di creatività, di dubbi, prove, errori e casualità.
Così come è l’operato del poeta: intuizione e prova, errore e casualità, lavorio di lima.
Ma ciò che accomuna è il medesimo rigore, il non accontentarsi mai, la perseveranza che poi arriva a vestire di cultura l’intuizione. Quel rigore che rifugge la superficialità, il così è se vi pare, il buon senso comune, il così è perché tutti lo dicono, così è perché così è sempre stato.
Prendiamo per esempio la dicotomia efficienza/efficacia.
Il termine efficiente è usato in senso fisico o economico, come ciò che assicura il prodotto maggiore a parità di input nel processo di acquisizione della cultura scientifica.
La scienza nelle proprie scelte comunicative e linguistiche si pone, come necessità metodologica, la realizzazione della massima efficienza: il più alto grado di rigore nell’espressione dei suoi contenuti.
Il linguaggio della poesia invece è in primo luogo efficace, ricco di una forza espressiva e di comunicazione che si realizza attraverso l’uso di artifizi retorici, di termini dotati di ampia libertà semantica, l’evasione dai nessi sintattici logico-formali.
Il grado poetico viene introdotto nella scienza attraverso immagini e metafore che permettono l’intuizione sintetica e la comunicazione.
L’incontro fra scienza e linguaggio è quindi un incontro catastrofico.
Come nella tragedia greca la catastrofe è il punto di passaggio inatteso da uno stato all’altro, così la realizzazione di un atto comunicativo, nella trasmissione di un contenuto scientifico, diventa momento risolutivo, scioglimento dell’azione. Quando si comunica si realizza il cambiamento di stato, lo scioglimento dell’azione, la catastrofe appunto.
La comunicazione allarga il campo semantico di una parola, la scienza lo restringe, nel precisarlo.
La comunicazione nella scienza è il luogo in cui il caos delle intuizioni si trasforma in una struttura di significati. I chimici lo chiamerebbero passaggio di stato.
La letteratura è il luogo in cui i sogni si trasformano in parole, è una manifattura, una sorta di mensa di significati. L’espressione poetica aumenta ancora l’efficacia espressiva, ma diminuisce l’efficienza, la fedeltà con cui viene riprodotto il contenuto scientifico teorico.
L’astrofisico John Barrow sostiene che nessuna descrizione non poetica della realtà potrà essere mai completa.
Se poi spostiamo la nostra attenzione sulla dimensione sociale della scienza e ci domandiamo quali ricadute provoca la scienza nella vita della collettività, comprendiamo quanto siano importanti i modi della sua comunicazione. E allora sono da sfuggire alcuni pericoli ricorrenti: le esagerazioni e l’assioma che procede per principi universali e decontestualizzati.
La scienza attuale non potrebbe esistere senza il linguaggio, perché il linguaggio è scienza primitiva. Comunicare la scienza diventa quindi un momento costitutivo della prassi scientifica che costringe addirittura a ripensare la scienza.
La parola è il sommo strumento della comunicazione ed è attraverso la lingua che vengono formalizzati i ragionamenti logici e le regole della pratica. Divulgazione cela vulgus, popolo, massa, che implica informare e comunicare, presuppone un’interazione col mittente.
Al referente non si richiede solo ascolto passivo “l’amatore passivo che ascolta la musica senza saperla eseguire” come dice Roland Barthes, si chiede di conoscere e di usare la scienza.
La parola è il sommo strumento della comunicazione poetica, assume un’alta densità simbolica, la parola si veste di tutti i sensi per dire l’indicibile.
C’è una solitudine di spazio,
una solitudine di mare, una di morte, ma
faranno lega tutte quante
a paragone con quell’estremo punto,
quella polare ritrosia
di un’anima ammessa a se medesima.
Finità infinità.
Emily Dickinson
La poesia fa un uso emozionale del linguaggio naturale, moltissima strada separa il dato iniziale della conoscenza che la poesia elabora. Ridisegna a ogni lettura e a ogni ascolto scenari nuovi, contenuti variabili in base al bagaglio culturale ed emozionale del pubblico.
E allora c’è forza e forza: qual è più forte, la forza della fisica o la forza della poesia?
Scienza e poesia fanno ricorso a un linguaggio figurato e ambiguo, per comunicare. Esempi ricorrenti sono le metafore, di cui la scienza e la comunicazione della scienza sono ugualmente ricche: buchi neri, sapore e colore dei quark, numeri abbondanti e gemelli.
Molto del lavoro editoriale dell’astrofisica Margherita Hack è stato dedicato alla divulgazione della scienza, una divulgazione intelligente e accorta, che ha saputo catturare la curiosità dei lettori comuni e portarli per i cieli verso orizzonti prima visitati solo da specialisti.
Il fascino delle stelle è capace di catturare tutti, anzi stella è una parola così usata, fino a diventare uno stereotipo.
Per stella nel linguaggio comune si intende un corpo celeste che emana luce.
Certo è che astro e cielo ci portano in alto, richiamano addirittura il paradiso.
Stella è comunque un vocabolo molto usato nel linguaggio comune: può essere cadente, polare, filante, errante, nebulosa… Si indicano come stelle occhi lucenti e brillanti, occhi intelligenti e meravigliosi. Stella significa anche destino, sorte, fato e avere una buona stella è un bell’augurio.>
Stella è anche una donna bellissima, una donna ammirata, una star.
Stella alpina e stella di Natale sono fiori significativi, vedere le stelle non è augurabile a nessuno, portare alle stelle è invece auspicabile, salire alle stelle può essere appetitoso, ma pericoloso (soprattutto per la discesa!); se i prezzi salgono alle stelle bisogna preoccuparsi, avere tanto quanto sono le stelle in cielo dipende da che cosa, dipende da che cosa anche per la repubblica stellata!
Stelletta è un’attricetta con accezione non molto positiva, ma significa anche asterisco, grado e distintivo, per cui avere tante stellette è segno di prestigio e di potere (in ambedue i sensi!).
Stelloncino è un trafiletto, senza titolo, di cronaca mondana o di altro argomento leggero.
Lo stellone è il sole, la stellina è anche una pastina in brodo – incubo della mia infanzia – non molto appetitosa, mentre le stelle filanti profumano di festa e di allegria. Le Guerre stellari ricordano avventure cosmogoniche. Se la notte delle stelle emoziona i cinefili, il ristorante a tre stelle è il top per i golosi.
Se ci spostiamo sul mare troviamo le stelle di mare, ma stella è anche una piccola imbarcazione attrezzata con vela e fiocco. Per la geometria è una figura geometrica formata da un poligono regolare sui lati dl quale hanno la loro base altrettanti triangoli isoscele.
“Vergine chiara… di questo tempestoso mare stella” troviamo in Petrarca, “E uscimmo a riveder le stelle” è la magnifica chiusura dantesca.
Curiosi sinonimi sono capillizio, nutazione e asterismo. L’astronomo è detto anche stellatore e stellografo.
Comunque, divagazioni a parte, adesso la parola va agli specialisti, introdotti da un artista, perché Griseldascrittura è per gli incontri stimolanti, le ibridazioni feconde. E per raccontare la scienza comincia, appunto da un artista.
Andrea Dami propone la sua opera Il fiore di Leonardo (da Pisa), presente per tutte le iniziative dell’edizione 2006 nel suggestivo spazio del Palazzo Pretorio di Certaldo.