La cultura che si respira in questa società è sempre più semplificata e superficiale, enciclopedica e accumulativa; l’accelerazione che sembra impressa a tutto quanto, rischia di far dimenticare la necessità della lentezza, da cui nasce il rigore dell’approfondimento; la furbizia ha preso il posto dell’acutezza dell’intelligenza; il conformismo a ogni costo tenta di spengere il pensiero creativo; l’utile immediato sembra destinato a sostituire gli ideali. Così, presunti bambini prodigio in offerta speciale, si candidano a diventare presuntuose marionette pronte per l’uso, ottime per chi vagheggia fedeli esecutori.
Questo è il frutto di una scuola rimpecettata da modernizzazioni di facciata e non ancora investita da vere riforme, dove non si vive, ma si vivacchia – in attesa del diploma o della pensione -, imprigionata nei riti dei vecchi tempi e dei vecchi spazi, impigrita da obiettivi senza orizzonti, in un tran tran dell’abitudine che scontenta tutti. E’ una scuola grigia, la nostra, che puzzicchia un po’ di muffa e di stantio. Ma non è solo una questione di colori e di odori, è anche di sostanza, perché è una scuola che, ratificando disuguaglianze sociali, distribuisce pillole di saperi obsoleti ai semialfabetizzati paganti dei paradisi cretini dei diplomifici di moda. E’ quindi frutto di un preciso disegno politico.
Una scuola che, mentre litiga sul concetto di pubblico e di privato, “fra i due litiganti il terzo gode” perché gli unici soldi che vengono distribuiti se ne vanno come elemosina a famiglie che l’elemosina sono abituate a farla.
Questa è la scuola che non vogliamo.
Cerchiamo di dimostrare perché e di chiarire ciò che vorremmo, anche perché sappiamo che non tutto è così e che le generalizzazioni sono sempre pericolose.
Una vera legge di riforma dovrebbe scaturire da un dibattito a più voci
L’approvazione della legge di delega per la riforma degli ordinamenti scolastici (legge n. 53 del 28.03.03) e la sua attuazione pongono delicati problemi di varia natura, la cui discussione dovrebbe investire non solo gli addetti ai lavori, ma l’opinione pubblica nel suo complesso. La scuola è “affare” di tutti, da qui dipende non solo il futuro culturale del paese, ma anche la sua conformazione sociale e il suo destino economico. E la legge-delega non è uno strumento istituzionalmente adeguato per una riforma di tale rilevanza.
Così si varano, ma non si formano le riforme.
Innanzitutto avrebbe dovuto essere coinvolto il Parlamento, sede della sovranità popolare, luogo in cui pluralismo politico, culturale e religioso, trova la sua sintesi con le specificità territoriali, poi i diretti protagonisti e via via tutti i rappresentanti delle istituzioni che con la scuola interagiscono.
Quel che si può fare adesso, oltre a manifestare legittime perplessità, è cominciare a cercare di recuperare prima di tutto un fattivo coinvolgimento delle scuole per poi investire altri settori.
Le riforme che nascono così, senza lievitare nelle mentalità delle persone, senza scaturire da dibattiti argomentati in cui si confrontano idee e opinioni, rischiano di rimanere su una soglia di superficialità, che ne limita l’incisività. Basti pensare a quanto fermento riuscì a provocare il lavorio di preparazione degli Orientamenti della scuola dell’infanzia del 1991, che restano uno dei provvedimenti più qualificati della scuola pubblica di questi ultimi anni. I dibattiti che ne hanno accompagnato l’iter hanno costituito un terreno estremamente proficuo per la crescita di tutti, insegnanti e non.
Sostituire il confronto delle idee con operazioni pubblicitarie, palesa una mentalità che guarda all’immagine più che al merito, che rinuncia quasi con stizza al rigore della cultura. Manca la riflessione che sostanzia la ricerca, manca il pluralismo che esalta le energie migliori della società. Manca lo spessore dell’approfondimento argomentativo, manca la possibilità di perfezionamento garantita dalla sperimentalità. Si ha l’impressione di un susseguirsi di scelte affrettate e non adeguatamente motivate, di criteri di efficienza puramente contabile e di provvedimenti di pura propaganda. E sappiamo quanto la fretta e l’efficientismo siano nemici di ogni qualità.
Insomma si avverte il predominio di una malintesa concezione dell’economia intesa come riduzione della spesa, a prescindere dai bisogni e dai risultati, e non come scienza che insegna a utilizzare al meglio le risorse disponibili. Con calcoli aritmetici si somma e si divide studenti e docenti, mentre si sottraggono risorse atte a garantire il sostrato di qualità.
Il problema è politico: considerare la formazione una voce di investimento e non una spesa da tagliare, considerare la qualità un diritto di tutti e non un privilegio di pochi.
Ed è la legge finanziaria a parlar chiaro con la chiarezza dei numeri, smentendo di fatto le dichiarazioni del Ministro: “investire di più nella formazione e nella ricerca”.
Insomma alle parole non corrispondono i fatti.
Sia nel documento di programmazione economica e finanziaria, sia nella legge finanziaria, l’istruzione, la formazione e la ricerca, diventano occasioni di puro e semplice contenimento di spesa. Si dimentica che l’investimento in formazione resta la leva più significativa per la qualità dello sviluppo e che la questione riguarda tutti, non solo le “persone di scuola”. Non può esistere sviluppo economico senza sviluppo culturale articolato e diffuso.
Questo è un nodo strategico per l’elaborazione di reali politiche di sviluppo.
Scuola, università e ricerca sono fattori decisivi della vita democratica e civile, intellettuale e produttiva del paese. Ed è mancato un confronto diretto, aperto e argomentato con tutti i soggetti che interagiscono nel pianeta scuola, e mi riferisco non solo a docenti, discenti e genitori, ma anche ai rappresentanti del mondo accademico, produttivo e sociale.
La qualità della vita democratica di un paese dipende dalla salvaguardia dell’eredità del passato, dalla gestione consapevole della vita economica, sociale e culturale del presente, connessa alla capacità di progettare il futuro. Formare le energie intellettuali necessarie a possedere e sviluppare le forme antiche e nuove del sapere critico, significa concorrere all’accrescimento nazionale e internazionale.
E’ quindi il momento di ribadire con forza che la scuola è questione di tutti, perché la fretta dell’efficientismo di chi governa rischia di impedire a tutto il paese quella crescita di cui ha sacrosanto bisogno e diritto; con la presunzione di cancellare quello che è stato realizzato dal governo precedente, si rischia di buttare a mare anche i frutti di un dibattito – a volte rissoso e inconcludente – ma che ha comunque coinvolto molte persone e diverse professionalità in questi ultimi anni. Sappiamo quanto sia importante per una comune crescita civile, il confronto di opinioni e di prospettive, l’interscambio di culture e professionalità. Mentre i veri pericoli sono sempre costituiti dai silenzi, dalle indifferenze e dalle presunzioni di chi crede di avere in tasca la verità.
Poiché anche numerosi aspetti di rilevante interesse pedagogico non trovano nel testo di legge un’adeguata trattazione, non resta che auspicare che l’elaborazione dei provvedimenti attuativi veda un ampio coinvolgimento di diverse professionalità e istituzioni, accompagnato dalla considerazione delle migliori esperienze realizzate.
Docenti autori e protagonisti
Una riflessione sui saperi e sulle conoscenze fondamentali è essenziale, come pure sull’eccessiva superficialità con cui si sono riversati sulla scuola compiti e funzioni genericamente socializzanti a discapito della sua preminente funzione culturale. Sarebbe opportuno che provvedimenti di portata così coinvolgente fossero accompagnati da un carattere di sperimentalità capace di arricchirsi con le proposte scaturite dal lavoro in fieri dei protagonisti del processo formativo; il carattere definitivo di provvedimenti di legge soltanto da applicare, li impoverisce in partenza, rinunciando all’arricchimento che molti potrebbero apportare con la loro esperienza.
E’ certamente legittimo che un governo proponga indirizzi culturali e standard di riferimento con l’obiettivo di assicurare l’unitarietà e la qualità del sistema educativo nazionale, ma è opportuno correlarli all’idea di curricolo, dove si sostanzia la responsabilità delle singole scuole (Dpr 275/99).
Qui potrebbero giocare un ruolo fondamentale i docenti che hanno compreso le grandi potenzialità insite negli spazi offerti dalla medesima legge, situati in quell’autonomia di ricerca – e di ricerca soprattutto sulle pratiche didattiche – che deve essere esercitata da chi non si accontenta di svolgere un semplice ruolo impiegatizio e sceglie di vivere pienamente la dimensione culturale della docenza, da chi è capace di passare da “personaggio in cerca di autore”, ad autore e regista della propria identità professionale.
Si dice invece che gli insegnanti siano troppi e si lascia intendere che lavorino poco, mentre invece costituiscono un’irrinunciabile risorsa per la qualità del sistema. Perché è proprio nella capacità di rispondere alle sfide del cambiamento, nel saper costruire saperi e valori condivisi, che la scuola può diventare strumento di crescita democratica e di emancipazione.
Lavoro di approfondimento disciplinare e interdisciplinare, rapporti con università e istituti di ricerca, insomma studio continuo, interscambio di competenze ed esperienze che si sostanziano in una ricerca/azione improntata a un rigore che non si accontenta. Ed è qui, nel rigore di chi non si accontenta, che abita la qualità del difficile mestiere dell’insegnare.
Un processo di riforma di questa portata dovrebbe saper suscitare negli insegnanti interessi, motivazioni, disponibilità a interrogarsi criticamente sul proprio vissuto professionale, desiderio di misurarsi con il nuovo e di migliorare continuamente. Invece nelle scuole si percepiscono preoccupazioni e incertezze, disincanto e risentimento. Gli operatori scolastici non vorrebbero solo eseguire, ma pensare, costruire strategie, sperimentare, semplicemente perché lo sanno fare e vorrebbero dare il loro contributo. Con competenza e passione, pur essendo fra i meno pagati d’Europa.
Formare una riforma significa mettere in atto strategie di coinvolgimento e condivisione, tempi più dilatati per l’allestimento delle strutture, per la preparazione degli ambienti e l’informazione ai genitori, ma soprattutto per la formazione e il pieno coinvolgimento di tutto il personale docente. Perché sono molti quelli che, nonostante la scarsa considerazione sociale, esercitano con passione e competenza la loro professione, magari costruita per imprenditoria diretta e non certo per diritto riconosciuto. Quelli che hanno capito che fare l’insegnante significa aiutare le menti di tutti a essere ben attrezzate, significa far comprendere che l’apprendimento è una gioia come ogni scoperta, una fatica-piacere che accende il cervello e spenge la noia. Quelli che hanno capito che un gruppo classe è un grande laboratorio, dove niente può essere mai dato per scontato, ma costruito con un continuo ripensamento e affinamento delle armi del mestiere, con un perseverante sporcarsi le mani nel fare e nello sperimentare, senza rinunciare all’approfondimento teorico di quelle scienze che sostanziano il processo di insegnamento-apprendimento e che, come tutte le scienze, sono in continua evoluzione.
Qualsiasi laurea che dia diritto alla professione dell’insegnare dovrebbe essere una tappa e non un punto di arrivo, perché c’è poco di definito nella dialettica docente-discente, mentre c’è molto da dare e molto da imparare. A questo proposito è essenziale un diverso rapporto fra scuola e università, una prospettiva di comunicazione sempre più aperta che qualifichi l’una e l’altra.
Affinché la scuola possa diventare veramente luogo di ricerca, capace di coniugare quotidianamente approfondimento teorico e sperimentalità, luogo di confronto e di dibattito culturale, occorrono riforme di altro tipo e di diversa genesi.
Perché spetta alle scuole assumersi la responsabilità del “che fare”, rivendicando i propri spazi di autonomia organizzativa, didattica, di ricerca e di sperimentazione, innestando le domande della società e della cultura nella propria storia e nelle proprie tradizioni, realizzando intese forti con le autonomie locali e le istituzioni territoriali.
La scuola dell’autonomia, nel rispetto del mandato costituzionale e della legge 53, potrebbe portare il suo originale contributo allo sviluppo del sistema nazionale della formazione e dare una spinta alla crescita dell’intero paese.
Sappiamo che in tutta Europa i processi di riforma più efficaci si sono trasformati in reali processi di innovazione, quando sono scaturiti dalle motivazioni e dalle competenze degli insegnati e hanno avuto tempi distesi e risorse consistenti, in un clima di ampia condivisione sociale.
“Non si fanno le nozze coi fichi secchi” si dice dalle mie parti, “tagli” e “vincoli” sono le parole più usate nel gergo governativo, mentre si sa che ogni qualità che si rispetti ha bisogno di finanziamenti mirati e adeguati.
Nelle scuole si respira aria di scontento e di risentimento, cerchiamo di trasformarla in impegno per far capire che chi si occupa di “cose di scuola” è prima di tutto cittadino e poi professionista che non si accontenta di improvvisate manovre di dubbio valore culturale.
La scuola di un paese democratico dovrebbe sancire il diritto di tutti alla cultura
L’istituzione del sistema duale e l’abrogazione della legge 9/99, ha abolito l’obbligo di istruzione fino a 15 anni e ha anticipato la scelta del percorso di formazione o di istruzione al termine della terza media, conservando in via transitoria l’obbligo formativo.
In assenza di strumenti regolativi il caos è generale, anche perché la legge 9 si sostanziava di forti intrecci con disposizioni del Ministero delle Politiche Sociali e del Lavoro.
La scelta obbligata fra due diversi canali – per niente equivalenti dal punto di vista formativo – non corrisponde né ai bisogni formativi dei giovani, né alle esigenze del mondo del lavoro.
C’è il rischio che continui a riprodursi una separazione fra “chi pensa” e “chi fa”, fra “cultura della mente” e “cultura della mano”, fra artes liberales e artes serviles.
Il sistema dei licei e quello dell’istruzione e della formazione professionale, per la loro diversa articolazione e durata, potrebbe vanificare il diritto degli studenti alle pari opportunità formative, ostacolando i passaggi e rendendo di fatto i due percorsi alternativi. A questo danno non certo di poco conto, si aggiunge l’oggettiva precocità della scelta.
Le distinte modalità di accesso ai corsi d’istruzione e formazione tecnica superiore, e all’Università (art. 2 lettere h, i del decreto di delega) sono destinate poi ad accentuare il carattere duale del cosiddetto “secondo ciclo”, senza realizzare l’auspicata integrazione.
E’ giusto garantire una scuola di eccellenza a chi è “tagliato per lo studio” e agli altri percorsi di formazione mirati ad avviarli a professioni corrispondenti alle loro capacità senza illuderli?
Ma chi può essere consapevole, a quattordici anni, delle sue reali capacità?
Come sarà realizzata l’auspicata interconnessione fra i due canali, in modo che non si neghino le rispettive peculiarità? Come garantire la pari dignità educativa e culturale a due percorsi oggettivamente così distanti?
Continuo a pensare poi che una precoce interruzione del percorso formativo sia ancora troppo spesso determinata dalla condizione sociale.
Una scuola che a quattordici anni diversifica e separa è un’idea vecchissima e ormai abbandonata da altri paesi europei. E’ un’idea elitaria di scuola, specchio fedele di un’idea elitaria di società. E’ un’idea miope che non vede e che non vuole vedere la realtà: a quattordici anni l’individuo vive uno dei periodi più difficili della sua vita, in cui disegna i tratti salienti della propria identità secondo processi complessi e mai lineari. Non è più quello di prima e non sa come sarà, vive ”in tempo reale” senza saper comprendere il passato e delineare un futuro, si trova in una “burrascosa rivoluzione” a cercare invano punti di riferimento in adulti distratti e paradossalmente affaccendati altrove per il “suo” bene. Con genitori che si preoccupano per loro, ma non si occupano di loro, che cercano a stento di riempire di cose la loro solitudine, per far tacere i propri sensi di colpa e vuoti interiori. Insomma i nostri sgangherati “ragazzi del web” – sempre extra large o extra smool, comunque sempre extra – sono spesso abbandonati a se stessi in piena tempesta ormonale e dovrebbero “sapere cosa fare da grandi”, quando ancora non sanno bene chi sono adesso.
Bambini sempre più scimmiottamente adulti e adulti sempre più infantili che riversano sui figli aspirazioni fallite e frustrazioni conseguenti, costruiscono famiglie che sono cosa ben diversa da ciò che dovrebbero essere. “Famiglia” è un gruppo di persone che vivono insieme per costruire e condividere un progetto di vita o un’accozzaglia di individui che stentano a vivere accanto?
Insomma a quattordici anni non può esistere libertà di scelta, semplicemente perché, tranne rare eccezioni, a quattordici anni un individuo non è in grado di elaborare progettualità. L’influenza dei genitori, quando ci sono, spesso non è positiva, perché molti confondono il figlio reale con il figlio desiderato, le proprie aspirazioni frustrate con i desiderata reali.
E’ un’età, insomma, in cui il consolidamento culturale non si è ancora realizzato.
Questa precoce differenziazione dei percorsi scolastici non risolve nemmeno il problema dei ragazzi in difficoltà, che si trovano di fatto un obbligo scolastico di soli otto anni; inoltre con l’abolizione della legge 9/99, siamo di nuovo in coda fra i paesi europei in quanto a durata del percorso obbligatorio di istruzione.
Come si può parlare a quattordici anni di “vocazione al lavoro”?
Personalmente continuo a pensare che il gusto per l’esperienza conoscitiva abiti in qualsiasi individuo e che qualsiasi individuo abbia il diritto di scoprirla e di svilupparla. Il problema è che alcuni vivono in un ambiente che favorisce scoperta e sviluppo e altri in un ambiente che ha altro da pensare. Ritengo che la formazione sia una grande risorsa per ogni paese civile, che la cultura sia un bene irrinunciabile, una condizione essenziale per la democrazia, forse l’unico modo per trasformare gli individui in cives e che forti basi culturali siano indispensabili per chiunque voglia costruire efficaci capacità professionali.
Si tratta di formare persone in grado di pensare criticamente, con una disciplina mentale che rifiuta il pensiero semplificato. La necessità di un’istruzione di qualità per tutti è una necessità di democrazia. C’è bisogno di agorà in questo mondo dove prevale la chiusura nel privato e la cultura dell’avere ha preso il posto della cultura dell’essere. C’è bisogno di chi sappia elaborare e applicare pensieri attivi.
Democrazia può essere una parola che si pronuncia e via o un ideale che si sostanzia nel vivere quotidiano, sarà l’una o l’altro secondo il grado di istruzione dei cittadini. Più alto è il grado di istruzione dei cittadini, più difficile sarà trasformarli in sudditi distratti, più alto sarà il controllo sociale su chi governa e più incisiva l’azione della politica.
E per politica intendo l’impegno politico-poietico che scaturisce dal pensiero attivo, che nasce dalla conoscenza e dalla consapevolezza, dal progressivo superamento dei confini dell’io. Significa ingaggiare una sorta di lotta con la realtà per trasformarla, passare dal dire al fare, dal valore dichiarato al valore agito, dalla conservazione all’innovazione creativa.
In questo senso investire in cultura diventa un vero investimento per la crescita democratica dell’intero paese.
E’ opportuno quindi tornare all’elevamento dell’istruzione obbligatoria al biennio post media inferiore, con funzioni di orientamento per le scelte successive; potenziare l’attività formativa del triennio medio superiore, raccordandola sempre più strettamente con l’attività del sistema regionale di formazione e apprendistato, garantendo il diritto all’istruzione e alla formazione fino a 18 anni per tutti e per tutte. Altrimenti si tratterebbe di una vera e propria vanificazione del diritto alle pari opportunità formative.
Si ha l’impressione che molta comune e preziosa intelligenza vada sciupata per l’assenza di privilegi sociali o per inefficienza della scuola stessa o di altri presunti luoghi di formazione.
Il mondo del lavoro, per esempio, ha ancora bisogno di tempo per attrezzarsi e proporsi come luogo di formazione. Programmare gli opportuni intrecci fra i diversi sistemi di formazione non è cosa facile, perché c’è ancora bisogno di concentrarsi su interventi specifici come la qualificazione successiva al diploma di maturità e il sistema delle uscite e dei rientri.
Pur nella macchinosità di certe disposizioni, le novità introdotte dalla legge 9/99 erano molto importanti: i moduli per attuare le passerelle, i percorsi integrati, la valenza orientativa della valutazione, la certificazione delle competenze, il rapporto stretto con gli Enti locali e i Servizi per l’impiego. E la realtà del nostro paese non è certo fra le migliori. Una recente indagine condotta dal Ministero del Lavoro, ha evidenziato molteplici situazioni di utilizzo in attività lavorative di minori in età di obbligo, specialmente in alcune regioni.
Liceo classico, scuola di eccellenza?
L’attuale riforma sembra voglia restituire al Liceo Classico il suo ruolo di scuola privilegiata a cui indirizzare le eccellenze. Ma è davvero questa la scuola che, meglio di altre, permette di formare un cittadino con le qualità necessarie a orientarsi e a svolgere un ruolo incisivo nella complessità del mondo attuale? Non è forse quell’aura di prestigio consacrato – al di là di come vadano davvero le cose – a conferire l’etichetta di qualità nella generale superficialità della cultura di massa?
Si tratta di un primato che la storia a un certo punto ha assegnato a questo tipo di scuola e quindi a un certo punto sarà concesso ad altri, oppure ha ancora ragione Gramsci quando affermava che il duro cimento con le lingue antiche è il più efficace strumento di disciplina intellettuale?
Proviamo a sottolineare i punti forti.
Le grandi aspettative sociali e familiari nei confronti di chi si iscrive a questo tipo di scuola potenziano la motivazione al successo; il numero ridotto delle discipline e delle ore di scuola concedono maggiore spazio all’approfondimento individuale; la loro aggregazione attorno a un asse storico solidamente connotato dal punto di vista culturale, facilita l’apprendimento di contenuti e linguaggi; un metodo di studio rigoroso incentrato su verifiche continue esercita al rigore; un insegnamento prevalentemente contenutistico e trasmissivo, senza essere banale, accresce la qualità delle conoscenze.
Potremmo anche aggiungere la compattezza dell’insegnamento intorno a un asse disciplinare ben definito; la forte attenzione agli aspetti formali, con apprendimento robusto di strutture logico-linguistiche, l’abitudine a uno studio sistematico e rigoroso.
A parte la carenza di spazi dedicati alle scienze, alle tecnologie e alle lingue moderne, a cui molte scuole hanno già dato risposta nel clima di sperimentabilità che si è respirato in questi ultimi anni, viene però spontaneo chiedersi se le cose stiano davvero così.
Secondo la mia esperienza il Liceo Classico è una scuola a forte valenza formativa, una scuola di allenamento mentale che prepara a qualsiasi accesso universitario, ma non certo la scuola.
I problemi sono tanti, fra cui quello dell’uso operativo delle conoscenze – e cioè di una piena formazione delle competenze – compreso il rischio che la dimensione umanistica diventi archeologica e che non si riesca a liberarsi da una propensione all’eruditismo tardo ottocentesco.
A volta si pensa di dover formare dei filologi e non studenti che devono innanzitutto riflettere sul fatto che “ogni storia è sempre storia contemporanea” (tanto per non dimenticare Croce).
La traduzione delle lingue classiche dovrebbe poi superare il consueto meccanicismo per diventare un vero esercizio di problem solving, formulando ipotesi fino a giungere a una proposta di interpretazione: decodificare, contestualizzare, riconoscere elementi linguistici e culturali, riportarli all’esperienza contemporanea e così via. Qui sta la forte valenza formativa che potrebbero rivestire queste discipline.
Il Liceo Classico poi dovrebbe aprirsi nei confronti della tecnologia, della manualità e della contemporaneità e con la diversità delle provenienze sociali, misurandosi con la necessità di valorizzare adeguatamente diversità e uguaglianza. Insomma con il non uno di meno che si ritrovi ad aver valorizzate le proprie potenzialità.
A volte mi capita di osservare i miei studenti e le mie studentesse e di pensare a “come eravamo” trent’anni fa: mutati abiti e linguaggi, medesimi il silenzio e l’attenzione, uguale l’ansia di essere stati avviati all’eccellenza, la voglia di “farcela a ogni costo”.
E gli insegnanti? Ingrigiti – non si vedono più facce giovani – sembrano non essere stati toccati dal dibattito che ha acceso la scuola in generale: hanno visto corrodersi il loro status, ma continuano, con inalterato senso di autorità e per lo più nel medesimo modo cattedratico, a far lezione insieme a un pressoché unico compagno di viaggio: il libro di testo.
Le famiglie, di qualunque cultura e credo politico, continuano a esser convinte che al classico si studia di più e meglio, e così l’effetto alone è assicurato. La selezione c’è ed è a monte.
Sono gli studenti – o meglio le studentesse, perché il Liceo Classico va progressivamente femminilizzandosi, ma questo aprirebbe un discorso che in questa sede non ho spazio per affrontare – a rendere forte questo tipo di scuola o viceversa?
Tutte domande a cui è molto difficile rispondere e che potrebbero aprire un dibattito costruttivo intorno a questo tema, ed è proprio quel tipo di dibattito poco fa auspicato.
La risposta però non può essere una riproposizione dell’antica divisione delle due culture, ma quella di dare a tutti la possibilità di avere gli strumenti intellettuali per risolvere i problemi e non l’abitudine a mettere in pratica un insieme di soluzioni già pronte.
Credo che innestare nuovi contenuti – dalle lingue straniere all’informatica -, come a volte si è fatto, sia una strada giusta per rispondere alle nuove esigenze della società, ma che non sia il criterio dell’aggiuntività a risolvere le cose.
Superare la crisi che investe da tempo tutte le sedi di trasmissione del sapere, significa innanzitutto superare la risposta frettolosa e fraudolenta che si è data alla richiesta generalizzata di istruzione e formazione. Invece di dare di più a tutti si è dato a tutti di meno. L’offerta si è adeguata alla richiesta: a una società semplificata, un sapere banalizzato.
Tralasciando in questa sede anche la domanda – non di poco conto – se possa esistere una scuola egalitaria in una società classista, voglio sottolineare quanto sia dannoso il compromesso del dare qualcosa a tutti. E’ anche pericoloso esser convinti che il tipo di formazione impartito dalla scuola di élite, quando funzionava, non ci serve più. Ci serve, e come.
Come mantenere quell’eccellenza, rinnovando i contenuti? Come costruire un nuovo asse formativo per una scuola di qualità per tutti? Non sarà forse il sapere storico, quello a cui dedicare maggiore attenzione? Una comune e solida base di sapere storico, diacronico e critico, non potrebbe essere capace di costituire il comune denominatore dei vari ordini di scuola?
Lo sforzo attivo della mente non può comunque essere sostituito dalla leggerezza dello sguardo, la cultura delle immagini, non potrà mai sostituire la cultura del libro, ma potrà integrarla, e non di poco. Il problema non può esaurirsi nel sostituire il pensiero divergente con il pensiero convergente, ma insegnare a usarli ambedue a seconda delle possibilità, delle circostanze e degli obiettivi. Così pure per gli strumenti del sapere.
Fare in modo che la scuola svolga una funzione determinante nella trasformazione del paese, significa costruire una scuola di massa capace di offrire a tutti i mezzi necessari per realizzare la propria personalità, secondo attitudini e capacità adeguatamente conosciute e sperimentate, senza confondere il diritto al successo formativo con il diritto al diploma.
In una società di singolari e di plurali, nessuno è uguale all’altro: ognuno ha diritto di trovare l’humus necessario per la sua crescita e nessuno deve essere obbligato a rinunciare a percorrere le strade che si sente di intraprendere.
E’ essenziale una forte base culturale unitaria che si cibi, anche in modo dialettico, delle due culture, con una didattica capace di proporre analogie profonde fra campi diversi del sapere, dopo averne assimilato le epistemologie. Diversità e uguaglianza in un rapporto di connessione.
Studenti e insegnanti, alleggeriti dal compito di accumulare masse di nozioni e dall’ossessione di coprire tutto lo scibile, potrebbero essere liberi di aprire le menti ad apprendere, di esercitare una cultura della consultazione, della scelta e dell’approfondimento, di cui si sostanzia la cultura della ricerca. Insegnare a porre domande, elaborare ipotesi, provare e riprovare senza accontentarsi mai. Sperimentare il piacere del rigore gli uni per l’apprendimento, gli altri per l’insegnamento. Non può essere questo il modo per fare cultura nella scuola ciascuno per le specializzazioni scelte, senza rinunciare in modo preconcetto a eventuali opzioni di flessibilità e di passaggio?