“GRISELDA” è un’Associazione senza scopo di lucro, nata a Firenze il 10 Aprile 2000 e chiusa nel 2012.
Ha promosso iniziative culturali, in collaborazione con enti pubblici e privati. Tradizionale appuntamento annuale è stato GRISELDASCRITTURA, un workshop che si è svolto ogni anno a fine estate a Certaldo. Dopo alcune lezioni sul tema scelto, i pomeriggi erano dedicati ai Laboratori di scrittura, le serate a cene letterarie e manifestazioni culturali di vario tipo.
Sono nata a Certaldo e mi sono presa subito un bell’impegno: nascere a Certaldo per qualcuno che vuol diventare scrittore, è proprio una bella sfiga: il meglio che possa capitare è arrivare secondi! L’ombra del “Grande” sorride beffarda un po’ dappertutto.
Dopo la Laurea in Materie Letterarie all’Università di Firenze, ho cominciato a studiare e a leggere davvero. Forse ho anche insegnato qualcosa a qualcuno, visto che da allora a oggi, come docente e come dirigente, di scuole ne ho viste parecchie. Ho diretto anche un Istituto Regionale di ricerca educativa, ma a giudicare dalle attuali condizioni della scuola, qualcosa non deve aver funzionato.
Ho pure fondato una scuola per genitori e una scuola di scrittura, mi manca quella per cani per completare lo spettro della scolarizzazione di massa.
Nel 1977 è uscito il mio inequivocabile capolavoro: mia figlia Silvia. E il nome non è casuale.
Anche quello del cane: Virgola. E di quello dopo, Zoe.
Ho arrabattato per diversi anni cercando di fare in modo dignitoso la madre e la moglie, la figlia e la sorella, continuando a coltivare – insieme all’orto – interessi letterari e antropologici. Risultato: una perenne sensazione di fuori luogo, mi sembra sempre di dover essere da qualche altra parte.
La ricerca mi intriga, la scrittura mi affascina; così dal 1979 a oggi sono uscite diverse opere, di saggistica, di antropologia e didattica, di poesia, eccetera eccetera eccetera…
Raccontare gli altri per non raccontare-raccontare me, è un gioco di allusioni e di rimandi, uno “specchio di Alice” che mi è sempre piaciuto.
Poche le fughe nella scrittura creativa e dedicate ad amici: è un qualcosa di molto intimo che ho sempre pudore a mostrare.
Il successo – come si suol dire – con la consacrazione televisiva è avvenuto nel 1989, quando mi son ritrovata ben sette minuti del TG2 della domenica dedicati a un mio libro La guerra narrata (Marsilio). Non so nemmeno ora chi ringraziare, perché – checché si dica – la televisione fa vendere, e questa è una cosa che, almeno a me, dà molta soddisfazione. Si è scrittori non quando si scrive, ma quando i lettori pagano per leggerti.
Ma il bello doveva ancora venire.
Proprio in quel periodo, durante un seminario sui lavori delle donne, ho conosciuto Carla Corso, leader del “Comitato per i diritti civili delle prostitute”. E’ nato così un sodalizio di ferro, un rimescolamento di carte fra “donne perbene” e “donne permale”, da creare una confusione tale per cui non si riconoscono più le santarelle dalle puttanelle!
Peggio per i benpensanti, contro i quali il nostro lavoro si è rivolto.
Insieme abbiamo scritto Ritratto a tinte forti (Giunti) per distruggere gli stereotipi legati al mondo della prostituzione e Quanto vuoi? (Giunti) per svelare il mondo dei clienti. Abbiamo avuto e abbiamo molti lettori in Italia e all’estero, e anche qualche minaccia. Non è amato in questa società chi vuole scovare responsabilità e connivenze.
Anche per questo, dopo molti altri libri e altre esperienze, ho fondato a Certaldo l’Associazione culturale “Griselda”, per favorire la crescita di una cultura della diversità e dell’uguaglianza – guarda caso – attraverso l’uso dell’arte della parola.
Questo mondo non mi pace e vorrei cambiarlo, proprio con queste “armi”.
Noi, singolari e plurali,
noi, con un diffuso
bisogno di raccontare e
di raccontarci
per comprendere e
delineare l’identità
per fissare e
tramandare la memoria
vogliamo
esplorare l’identità di genere
riflettere sulla specificità
maschile e femminile
allacciare relazioni
materiali e simboliche
tendere fili, forti e sottili,
per tessere trame di rapporti
accostando colori
di culture diverse.
In questi anni abbiamo sostenuto, attraverso azioni diversificate e iniziative specifiche, le donne che sono venute da noi, nel loro faticoso percorso di autorealizzazione personale, professionale e di riconoscimento sociale, in piena sintonia con le caratteristiche del nostro territorio e delle sue tradizioni culturali. Spero ne abbiano fatto tesoro. A me hanno dato tanto.
Abbiamo accolto gli uomini che ci hanno seguito con stima e affetto, facendo capire che nessuna di noi è contro, ma non vogliamo più essere soltanto accanto. Vogliamo stare insieme, mettendo a disposizione di tutti le nostre idee, i nostri particolari punti di vista, la nostra dignità, professionalità e creatività.
Ho cercato di trasmettere questo nostro modo di essere donne con una poesia dedicata a una scultura del Maestro Marco Borgianni: rappresenta una donna che incede decisa con una albero al fianco.
Se ascolti davvero, puoi sentirla parlare…
Nave sono e sono stata: carico, solco e trasporto.
Porto vite.
E attendo, come sicuro porto.
Così tutte le navi e tutti i porti furono me
che cercavo di essere te.
Mi nominasti con nomi differenti, forgiasti dee per rendere il nulla possibile.
Carga sono del peso di parole che partorii e niente valse
appoggiarmi al vuoto profondo delle tue ricchezze.
Restai vita in potenza.
Mentre ti alzasti in volo, rimasi Arianna, prigioniera del labirinto.
Così in claustrum costruii la mia ubiquità.
Nascosi la mia bellezza nella tua bellezza e adesso vedo
la tua immagine nella mia immagine.
Ansimo in indicibili amori: ardono e si spengono, non saranno mai.
Mi son fatta nuda e tremante di coraggio.
Nelle apparenze persi il mio essere naturale e ora
nel vuoto di me stessa, sono piena di te.
Sono te che vuoi me.
Allora tu chi sei che stai nel mio nonstare? vuoto che non riesco a colmare.
Cerco il punto zero della notte,
perché è in quello zendale che si nasconde l’alba.
Sa di zagare e zampilla lucentezze.
Ma c’è chi si specchia e vede il nulla,
perché è il nulla che si specchia nell’illusione di essere altro.
Conto le ore dell’attesa, femmina, mentre maschia è l’eternità.
Mia creatura è la parola: femmina è stata e femmina sia,
purché non si consumi nel gridare.
Genero nel nominare e dimoro nelle ombre delle parole.
Come Cassandra ti persi per averti.
Ma io ti esisto: sono in me e in te.
Minerva di Giove e di me stessa.
Il mio sguardo non molla l’orizzonte e allora tutto è nascita.
Nello schianto del dolore cerco la luce, colgo e raccolgo ricordi.
Soffio sulle pazienze come fuoco e tesso,
tesso, tesso infinite tele, imprigionata nelle attese.
Mi faccio padre e madre, corpo doppio,
anfora senza fine per la sete dei figli
– animali vaganti per terreni incolti –
aspettando che si paghino i debiti dell’oblio.
Adesso vado avanti decisa.
E mi porto dietro l’albero della luce:
radici e foglie in forma di speranza,
utopia che carezzo e cullo, trepida e forte.
La nutro. Figlia del dio dai mille nomi.
Faccio terra e cielo con le mie mani.
In una disperata allegria cerco lo spaesamento nella poesia.
E tu che mi dai, oltre il tuo spavento del vivere?
Ti prego, non essere la mia zavorra.
Facciamo pari e patta.
Adesso volo io e le mie ali non sono di cera impastate.
Nel bozzolo dell’armonia
nella densità del silenzio interiore
nella scrittura del mio corpo
per te cerco l’altrove
e allora qui potrai riporre le tue spade.
Per sempre.
Per sempre.
Leggere e scrivere
E’ nata così la “Scuola di scrittura Griselda”,una sorta di scuola di lettura mascherata da scuola di scrittura, poiché ho sempre ritenuto la lettura il perno fondamentale del governo delle parole.
“Spiare in casa d’altri”, scoprire nello scrivere dei grandi perché una frase risuona, un incipit attrae, un finale spiazza e fa sgorgare il desiderio di leggere ancora, è quello che abbiamo cercato di fare con frotte di corsisti provenienti da tutta Italia.
Tutte e tutti con il medesimo amore per la letteratura.
Insieme abbiamo coltivato l’abitudine a penetrare nei “boschi narrativi”, a scoprirne sentieri e progetto d’insieme, senza accontentarsi della superficie.
Il lettore attivo è quello che partecipa al libro e lo completa, aiuta l’autore con la propria intelligenza e contribuisce alla buona riuscita del libro.
Una buona lettura innesta nel libro il sapere e l’esperienza che porta, entra in vero contatto con la narrazione, è capace anche di entrare in contrasto. I lettori sono intelligenti più di quanto si creda e più di quanto si creda amano la qualità e ricercano la perfezione, senza accontentarsi facilmente.
Il rigore dà piacere. E’ una fatica che prima o poi appaga.
Legere in latino significa scegliere, quindi presuppone un’abilità complessa che non può tradursi in mera decodifica di segni fonetici.
Scrittura-lettura sfidano il tempo, rompono i confini dello spazio, stimolano il dialogo con l’io. Nel rapporto dinamico scrittore-lettore l’opera si apre, ma occorre una decisa capacità di investigazione e sensibilità.
Una lettura di questo tipo educa a tutto tondo: rinforza l’abitudine a entrare nel profondo delle cose con procedimenti mentali via via più articolati, con un intervento attivo dell’immaginario, che fortifica la mente in tutti i suoi aspetti. L’osmosi con la pagina scritta, produce piacere, e alla fine di un libro permane il desiderio, anzi il bisogno, di lasciarsi di nuovo “trasportare come un sughero sull’onda” per dirla con Roland Barthes.
Nell’attuale impoverimento cognitivo, con preoccupante omologazione dell’immaginario, la lettura si presenta come un rito laico e gratificante, capace di nutrire in profondità la personalità, di accendere la fantasia e sviluppare l’immaginario.
Leggere produce autonomia e consapevolezza, autocontrollo e partecipazione, atteggiamenti chiave della vita democratica. Saper leggere e voler leggere è indispensabile per qualsiasi processo di formazione, riguarda il cognitivo, l’etico e il fantastico.
L’iter della narrazione, nell’essere ripreso da un’attenta lettura, viene posseduto, così avviene l’iniziazione al narrare che si alimenta con nuove letture, tanto da farsi organica e completa capacità di scrittura.
Scrivere, scrivere, ma scrivere come?
“Generalmente, io scrivo ogni cosa più e più volte. Tutti i miei pensieri sono pensieri secondi.
E correggo moltissimo ogni pagina, o la riscrivo svariate volte man mano che vado avanti (…).
Le cose mi vengono poco alla volta, a pezzetti, e quando vengono, devo lavorare sodo per organizzarle in qualcosa di coerente.”[1]
C’è chi scrive di getto, ma pochi possono davvero permetterselo.
C’è chi crede nell’ispirazione, nel lampo di genio che fa scoprire l’immagine giusta e le parole appropriate.
C’è chi crede nel lavorio della conoscenza, nell’esplorazione intelligente del già scritto, nella forza di penetrazione nelle parole delle pagine già formalizzate.
C’è chi crede, come me, che occorrano tutte e due.
Innestare lo studio e la ricerca, su una forte vocazione.
Ma c’è una cosa che è certa: scrivere fa bene, costruisce una qualità della vita migliore.
Non produce sempre scrittori professionisti, per questo ci vuole talento e tante altre cose ancora, ma aiuta a diventare frequentatori di librerie e biblioteche, affamati di letture. Insomma i libri diventano proprio “anticorpi per la mente” – come il titolo di un fortunato ciclo di incontri – aprono dibattiti, provocano riflessioni, liberano energie per pensare e per agire. E in un momento storico di grandi difficoltà come questo occorre un nuovo protagonismo di tutti per la cultura, capace di spaziare in più direzioni e di produrre pensieri attivi.
Anticorpi per la mente per quelli che…
le fanno e poi le pensano
appastati dalla TV imbecille, ridono senza avere niente da ridere
amano così tanto le donne, che le comprano di tutti i colori
guardano gli altri specchiandosi nei loro occhiali
hanno naso nella vita, ma non hanno occhiali per guardare al di là del proprio naso
per quelli che…
accarezzano le utopie, ma non sanno trasformarle in progetti.
Anticorpi per la mente per quelli che
“ma guarda come sono deficienti, c’è bisogno di un tipo in gamba che li comandi!”
per quelli che si sono appisolati un po’ e preferiscono pantofole e divani
per quelli delle villette a schiera: 5 stanze, 5 auto, 5 televisori
e 5 litigi al giorno… da assumere prima e dopo i pasti
per quelli che non hanno tempo da perdere ad assaporare tramonti,
perché “la vita è diner!!”
per quelli che “è scoppiata la rivoluzione, oddio cosa mi metto!”
per quelli del “mi spetta” o non “mi spetta”, perché si ricordino del “mi riguarda”
per quelli che la vita ha preso a calci in culo,
perché imparino a prendere a calci la vita!
Ma perché si scrive?
Beckett confessa: perché non so fare altro.
Borges: sono molto più orgoglioso di quello che ho letto che di quello che ho scritto.
Tondelli: perché ho letto.
Fernando Pessoa: “la letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta”.
La letteratura ci concede qualcosa di più rispetto alla natura: uscire da noi stessi per diventare altri.
Antonio Tabucchi afferma: si scrive di sé, perché fa bene: “per cominciare a capire chi siamo, dobbiamo raccontarci. Anche la storia che leggiamo è sostanzialmente narrazione. Senza la narrazione non si dà storia.”
Si scrive anche per raccontare la verità: “Ho deciso che racconterò tutto. Scrivo per capite me stesso, e scriverò con la maggiore sincerità possibile. Ciò non significa che io sia affidabile. Colui che spaccia per veritiere le cose che scrive sulla sua stessa vita di norma si è già ribaltato prima ancora di aver intrapreso una navigazione così azzardata.” Jostein Gaarder[2]
O forse si scrive per gioco. Ed è un gioco che somiglia a quello dei bambini, di una terribile serietà.
Perché è un mettere tutto in gioco e mettersi in gioco.
Come il sorriso della Gioconda, ineffabile, sempre pronto ricordarci il limite della conoscenza umana, l’imprescrutabilità dell’universo.
Ed è come se dicesse: ti è stato concesso di conoscere fino a qui, non puoi andare oltre.
Ma questo oltre è proprio il terreno dell’arte e della poesia.
Si scrive per puro divertimento? Sì, a giudicare dalle infinite piste presentate da Italo Calvino, Umberto Eco, Jorge Luis Borges, Raymond Queneau,Francois Le Lionnais…
Si scrive per sfidare la morte azzarda ancora Antonio Tabucchi: si scrive perché si ha paura della morte? O perché si ha paura di vivere? Perché si ha nostalgia dell’infanzia? Perché il tempo è passato troppo in fretta? Si scrive per rimpianto o per rimorso? Si scrive perché si è qui e si vorrebbe essere là?
Si scrive per il piacere di scrivere…
“Il testo è un oggetto feticcio e questo feticcio mi desidera.”
Il testo mi sceglie, attraverso tutta una disposizione di schermi invisibili, di cavilli selettivi: il vocabolario, i riferimenti, la leggibilità, ecc. e, perduto in mezzo al testo ( non dietro, quasi un dio da macchinario), c’è sempre l’altro, l’autore.”
“Il piacere del testo è quando il mio corpo va dietro alle proprie idee- il mio corpo infatti non ha le mie stesse idee.”
Da una parte e dall’altra, la scrittura-lettura si dilata all’infinito, impegna l’uomo nella sua incertezza, corpo e storia; è un atto panico, del quale la sola definizione certa è che non potrà fermarsi da nessuna parte.”[3]
Si può insegnare?
Come fai a insegnare ciò che non si può insegnare?
Quello non lo insegno. Rispose candido Giuseppe Pontiggia, dopo aver fondato una scuola di scrittura.
Io mi permetterò di aggiungere alle insostituibili regole dello scrivere che Italo Calvino ci ha tramandato nelle Lezioni Americane e instancabilmente ricordate in tutti i laboratori di Griseldascrittura, un solo ingrediente: la modestia.
E allora eccoci a scrivere cercando di coniugare vocazione letteraria e leggibilità, erudizione e leggerezza, citazionismo e ironia, ricerca culturale e investigazione esistenziale.
Si scrivono troppi libri raffazzonati e sciatti; non è importante avere edito un libro, ma scriverlo con una ricerca continua della perfezione.
Adesso è sempre più facile consultare, scavare in territori lontani, usare internet come enciclopedia e biblioteca. Farsi autore ma anche regista delle proprie idee, mettersi in viaggio per cercare chi ha avuto quelle idee prima di te e studiare come le ha esposte.
Se l’ha fatto meglio di come possa farlo tu, passa ad altro.
La tecnologia non uccide la lettura, se usata intelligentemente, l’aiuta a diventare più sofisticata.
Bisogna avere qualcosa di importante da dire, saperlo dire in modo diverso e migliore degli altri, avere il coraggio del rischio.
Scrivere significa esporsi in prima persona, assumere un ruolo sociale oltre che culturale.
Scrivere significa combattere la banalità, l’imbecillità del senso comune.
A volte mi domando a cosa serva la poesia in questo mondo di inciviltà e orrori?
In una diffusa normalità – in bianco e nero, scialba, casalinga, barricata nel dentro delle case, che identifica il sogno nella pubblicità, dove anche dio è in dio ragioniere – le persone sono scritte a lapis nell’indice della vita, sempre disposte a essere pedine di qualcun altro.
Ritualizzano tutto, non giocano, guardano gli altri giocare: i gesti sono ripetitivi, incapaci di percepire il piacere del nuovo, vivono nell’oscuramento del gusto e nell’immobilizzazione del tempo, con un’ansiogena paura del cambiamento…
La diversità invece è fatta di spigoli, di eccentricità, si realizza nel fuori, insegue sogni azzardati.
La diversità ha il naso per aria.
I diversi sono persone colorate, vivaci, scritte a tinte forti nell’indice della vita: giocano, non guardano gli altri giocare, azzardano sempre, nella ricerca di una coreografia del gusto, di un’accelerazione del tempo, con l’impellenza del cambiamento… e allora la diversità è poesia?
Scrivere non è mettere una parola accanto all’altra, né una somma di parole, ma creare un insieme di parole che emanano sensazioni intelligenti, capaci di toccare la mente e il cuore, pronte ad accogliere il lettore competente, che non è più solo lettore ma coautore.
“La voce del cuore canta ma non fa rumore” scriveva Pascoli, ma adesso deve diventare testimonianza etica e spirituale, per costruire una una nuova cultura, una nuova etica e spiritualità.
E allora eccoci a circumnagivare le parole alla ricerca di nuovi significati e di nuove risonanze, alla ricerca di un linguaggio diverso dal quotidiano, non serve più continuare a giocare con rosa e amore.
Dacia Maraini ci ricorda: “La poesia è sì una valletta amena, dove tutto può succedere come nel poema di Ariosto, ma è anche il luogo di scontro con lo stereotipo letterario, è una sfida continua di rinominazione di lune e rose, sottratte per sola forza estetica alla consunzione del tempo.”[4]
Bisogna amare le parole, ascoltare le loro risonanze, carezzarle e intrecciarle e allora, quando non si distingue più la forma della parola dal suo colore, quando siamo capaci di inebriarci del profumo che emana, amorognolo e frizzante, mai sdolcinato, allora ci siamo: c’è qualcosa che ora c’è e che prima non c’era.
Spesso è più bello un verso sul tramonto che uno stesso tramonto, se il poeta sa cogliere il magico da riproporre in forma di parole allusive e non descrittive.
Tutti scrivono o hanno scritto poesie: pochi però coltivano l’abitudine della lettura per perfezionare il proprio scrivere.
La poesia è nomade. E’ il territorio del possibile. E’ il regno della libertà.
Supera il mondo, forgiando mille mondi possibili con mille storie possibili.
Anzi mille e una. Come Sherazade.
Pavel Florenskij, teorizza il “valore magico della parola”.[5] “Il fonema è la struttura ossea della parola, ciò che vi è di più rigido e che è meno necessario, pur essendo nello stesso tempo indispensabile per la vita della parola. Il morfema è il corpo della parola e il semema la sua anima”.[6]
Compito dello scrittore è proprio questa arte maieutica dell’estrazione ed espressione dell’essenza magica e mistica della parola, la sua anima.
Kiki Franceschi ha spesso sottolineato nei laboratori che ha tenuto per Griseldascrittura “Oggi grazie alle esperienze dei futuristi, dei lettristi, degli inisti, dei poeti visivi, possediamo una nuova lingua poetica, viviamo una nuova fase d’ampiezza del linguaggio e la visività della parola scritta è parte dello statuto letterario. E’ insomma nata la terza letteratura, come la definisce Sanguineti.
Il poeta non è più il cantore del lamento, dei luoghi comuni, degli amori infelici, il poeta mira alla sintesi, ha ereditato dai lettristi e dai futuristi il fonema, l’onomatopeia astratta; il rapporto fra arte visiva e poesia è sempre più stretto, il colore delle vocali appare sui quadri, il movimento, la forma e la disposizione tipografica sono significanti poetici e anche il più tradizionale dei poeti lo sa.”
Per Giusi Quarenghi fare poesia è fare come se…“se di una scopa dico: “facciamo come se fosse il mio cavallo”, io so che nessuno mi prenderà sul serio. Ma il “come se” mi salva. E allora la p mi salva e dico: fare poesia è come fare il pane.”[7]
Poesia viene dal greco poièo che significa fare. Non ispirazione, divinità, mistero, si parte semplicemente fare.
Andrea Zanzotto, ospite di Griselkdascrittura, ci ha raccontato: “…quando si scrive poesia si è costretti a partire per scrivere qualcosa, ma non si sa mai quello che apparirà. C’è veramente un momento in cui uno perde il contatto, non dico con la progettualità, ma addirittura con la compulsione sotterranea che lo spinge a scrivere senza sapere neanche il perché, sente che deve scrivere entro un largo campo di argomenti, ma poi che cosa nascerà? Non può saperlo perché esiste uno strato in tutti noi che comunica con tutti noi, come un inconscio collettivo che attraversa anche le lingue e i tempi.”
Sono in tutti noi non scritte, queste storie a brandelli, ai poeti e agli artisti ri-crearle con affascinanti ri-scritture.
Un po’ di storia
Così il 10 Aprile 2000 è nata “GRISELDA” un’Associazione senza scopo di lucro.
In questi anni ha promosso iniziative culturali di vario tipo, in collaborazione con enti pubblici e privati, ha organizzato seminari, corsi professionali, stages, convegni e quant’altro potesse offrire occasione per
- conoscere e rileggere i saperi maschili e femminili
- valorizzare la molteplicità dei punti di vista
- aprire dialoghi, scambi e relazioni
- costruire una società di singolari e plurali.
Socie fondatrici: Sandra Landi, Silvia Ciampolini, Carla Borri, Samanta Lombardini, Elisa Gori,, Maria Antonietta Cruciata, Enrica Salvadori, Rosanna Montano, notaio.
Sono state privilegiate le attività legate alla lettura e alla scrittura, anche per incentivare l’accesso al lavoro e la progressione di carriera delle donne.
La sua sede è stata Certaldo, ma si è sempre rivolta a un pubblico regionale e nazionale.
Fra le attività più rilevanti sono state le edizioni estive di Griseldascrittura.
Griseldascrittura è un workshop che si è svolto ogni anno a fine estate nel centro storico medioevale di Certaldo. Una post vacanza, un modo intelligente per finire l’estate e prepararsi ad affrontare il lavoro con un di più di cultura.
“Una settimana tutta per te” per scrivere e per imparare a scrivere meglio, per leggere e per imparare a leggere meglio.
Gli interventi del mattino, in seduta plenaria, hanno cercato di fornire alimento per i laboratori del pomeriggio. La sera, sotto le stelle, chiacchiere e sorprese.
Lasciare gli impegni e la cura del quotidiano per un’esperienza culturale a tutto tondo, spesso è stata capace di ritemprare dopo le fatiche dell’estate.
- Griseldascrittura 2000
- Leggere e scrivere “in tutti i sensi”2001
- Connessioni: storie e scritture nel mondo 2002
- Scritture e riscritture: libri e… 2003
- Rac-contare… 2004
- Della lentezza 2005
- Raccontare la scienza 2006
- Il fantasma nel castello… il mistero 2007
- Musica e/è poesia 2008
- Luna e l’altro 2009
- Il fiabesco e il reale 2010
Hanno prestato la loro opera professionale nelle varie iniziative docenti universitari, intellettuali, scrittori e scrittrici di chiara fama, come dimostrano i libri:
- Griselda fra memoria e scrittura, a cura di S. Landi, Leo Olschki Editore, Firenze 2001
- Leggere e scrivere in tutti i sensi, a cura di S. Landi, Morgana Edizioni, Firenze 2003
- Scritture e ri-scritture, a cura di S. Landi, Morgana Edizioni, Firenze 2005
- Raccontare di scienza e di mistero, a cura di S. Landi, Morgana Edizioni, Firenze 2008
Così pure le antologie:
- Mater. Raccolta di poesie sulla maternità, a cura di C. Landi, con opere visive di G. Ugolini, Morgana Edizioni, Firenze 2000
- Pater. Raccolta di poesie sulla maternità, a cura di C. Landi, con opere visive di 12 artisti contemporanei, Morgana Edizioni, Firenze 2007
- Magis. Raccolta di poesie e racconti dedicati a Maestre e Maestri, a cura di C. Landi, con opere visive di 13 artisti contemporanei, Morgana Edizioni, Firenze 2008
- Luna e l’altro. Testi di 50 autori e opere di 50 artisti, a cura di A. Borsetti Venier e S. Landi, con opere visive di 13 artisti contemporanei, Morgana Edizioni, Firenze 2009.
L’Associazione “Griselda” ha collaborato per le sue realizzazioni con le seguenti istituzioni:
- Associazione Castello di Santa Maria Novella
- Istituto degli Innocenti
- Regione Toscana
- Consiglio Regionale della Toscana
- Commissione Regionale per le Pari Opportunità donna e uomo
- Provincia di Firenze
- C.I.D.I di Firenze
- Comune di Certaldo
- Comune di Firenze
- Comune di Castelfiorentino
- Comune di Poggibonsi
- Comune di Pontassieve
- Comune di Empoli
- Università degli Studi di Firenze
- Archivio per la memoria e la scrittura delle donne
- Banca di Credito Cooperativo di Cambiano
- Società delle Letterate
- Ente Nazionale “G. Boccaccio”
- Tredil S.p.A.
- Associazione MultiMedia
- La Barbagianna: una casa per l’arte contemporanea
- Associazione KunstBalkon E. V. Kassel
- Morgana Edizioni
- Rational servizi
- Versiliadanza
Scrivere cosa?
Scrivere storie di vita è stato il refrain della mia vita.
Ho scritto storie di molti scrivendo molte storie di me.
Processi di distanziamento e di identificazione, di continuità e discontinuità, di spaesamento e riappaesamento hanno accompagnato il mio fare. La narrazione infatti scaturisce spesso da un forte terreno intersoggettivo, da un gioco sottile di chi si rappresenta e di chi ritrae.
“C’era una volta… una vita”
“Raccontami una storia!”
E’ male se nella fretta del quotidiano non si raccontano più storie. I surrogati sono altro.
E’ il tepore dei fiati a riscaldare l’intimità di due corpi vicini, magari uno dall’altro nato ma spesso troppo lontani, tanto da non percepirne più gli odori e i sapori.
Quello di mia nonna sapeva di orzo e di miele e accompagnava il finire del giorno con “le storie di guerra”, poco dopo aver preparato, la sera, l’orzo da consumare con il latte e il miele, la mattina dopo. E “le storie di guerra” si mischiavano con “le storie di paura”, per esorcizzare la notte che stava per arrivare con le sue paure, ma anche per esorcizzare la vita che stava per complicarsi con i suoi imprevisti. Così mi lasciavo trasportare “come un sughero sull’onda” nei meandri della narrazione che presto diventavano i meandri del sogno.
Oggi, dopo gli studi e l’avanzare della professione, chiamerei questa esperienza personale “pedagogia inconscia per assunzione diretta”: mia nonna non lo sapeva ma la narrazione serve alla vita, così come il sogno serve a non perdersi nella realtà.
Quando poi si narra una vita, le cose si complicano ma si fanno più affascinanti, perché allora il legame fra generazioni diventa tangibile e sarà come scoprire dove sono le radici dell’esistenza, quelle radici, appunto, comuni. Communes significa nello stesso tempo, giocando con la sua etimologia, avere doni in comune, scambiarsi doni, ma anche stabilire moenia, determinare confini, confini che delimitano il noi e ci distinguono dagli altri, che servono, in sostanza, a delineare le identità di chi parla e di chi ascolta, tanto da procedere insieme, non solo accanto. E pensiamo a quanto siano diverse queste due parole.
E’ vero, la narrazione è proprio una recita a soggetto in cui i ricordi si susseguono con gli andamenti ritmici dell’evocazione: talvolta è un segno dell’oggi a richiamare un particolare di ieri, a volte i ricordi felici allargano il cuore, altre si trova nell’oggi la forza di dire cose che ieri non si sarebbero mai dette. Insomma la sequenza non è mai cronologica.
Chi narra, rompe le trame dei ricordi e le ricostruisce nella narrazione con una prospettiva diversa: a volte distanziata, a volte ravvicinata.
E’ come se avesse un cannocchiale e mettesse a fuoco di volta in volta prospettive di avvicinamento e di distanziamento.
Così l’emozionalità di allora si mischia all’emozionalità di ora e assume pulsazioni profonde, perché i ricordi sono soprattutto documenti di interni. Anzi si potrebbe dire che la cultura e l’educazione tradizionali abituano gli uomini a raccontare fatti e le donne a raccontare emozioni, naturale sfogo d’un apprendistato iniziato da bambine. E sono emozioni forti, quelle che talvolta si cerca di dimenticare, ma se si dimentica di dimenticarle o si ricordano con coraggio, magari trasformandole in parole, allora pungono come spilli.
Scrivere la propria storia, infatti, è sempre un atto di coraggio e di responsabilità, molte sono le persone che iniziano a organizzare i ricordi e poi, quando questi si trasferiscono sulla pagina bianca, quando si fanno parole e assumo la loro corposità, ne hanno paura e se ne distaccano. Occorre una grande capacità di mettersi in discussione, ma è come un ritrovare se stessi e ricominciare da capo con una nuova consapevolezza.
Esce un nuovo io quando si libera la memoria dai suoi recinti.
Ed è un io capace di dare cornici di senso alla vita.
Esteriorizzazione dello spazio del dentro nello spazio del fuori, crescita della persona, capace di trasformare la parola ricordata, in parola pensata, la parola pensata in parola agita.
“C’era una volta…” e, soprattutto c’è ancora, una vita.
Una vita che, assumendo lo statuto di narrazione, si legittima come vita, acquista senso e realtà, comincia e esistere davvero nella scrittura.
Ma nel magico gioco, appunto, della vita, è proprio allora che tutto si ribalta.
Perché, quando la narrazione diventa libro, appare più come frutto della fantasia che della realtà: la vita che si fa racconto trasforma il reale in iper reale, tanto che poi, difficilmente si riesce a percepire il confine fra realtà e narrazione.
Insomma, chi narra rende il reale così personale, da farlo sembrare immaginario: cosa pensata, vissuta non adesso, che esiste nella mente e che si traduce in segni sulla pagina bianca e quindi in una nuova realtà.
Ma vita e narrazione della vita si interfacciano, non si elidono, si arricchiscono vicendevolmente.
Raccontare significa estrarre l’esistente dal non tangibilmente esistente, aiutare la realtà a connettersi con la memoria. Certo, ognuno sta dentro la propria storia, ma fra chi parla e ascolta c’è connessione, proprio grazie alla narrazione: quel filo che collega l’oggi all’ieri, la vita dei figli a quella dei genitori.
Così lo spazio dell’io diventa spazio del noi.
E il gesto del narrare si fa tutt’uno col gesto della vita.
“L’arte è la percezione dei misteri dell’irrazionale attraverso mezzi razionali” Vladimir Nabokov Opinioni forti
C’è un racconto di Jorge Luis Borges[8] che narra di un re e di un poeta.
Il re, umiliato il nemico, chiede al poeta di immortalare il suo trionfo con un’ode celebrativa. Il poeta, lieto e orgoglioso del compito, espone un dettagliato resoconto mettendo in campo le sue doti narrative, la sua preparazione nella metrica, tutto il suo sapere.
“Le leggi mi autorizzano a prodigare le voci più arcaiche della lingua e le più complesse metafore… Posseggo le virtù delle erbe, l’astrologia giudiziale, la matematica e il diritto canonico…”
Il re concede un anno di tempo per quel poema che canti le sue imprese e ne conservi per l’eternità la memoria. Trascorso un anno, il poeta si presenta, fiero del suo lavoro: contiene immagini mirabolanti, raffinate metafore, tutti i saperi della sua cultura.
”Hai adoperato con destrezza la rima, l’allitterazione, l’assonanza, la quantità, gli artifizi della dotta retorica, la sapiente variazione della metrica, ma… Tutto è giusto, eppure nulla è successo.”
Insomma il poema è perfetto, ma non palpita di vita, è lingua morta.
L’esattezza e la precisione didascalica hanno il sapore di un’eccellente riproduzione dei fatti, ma gli animi degli ascoltatori sono rimasti muti e inerti. Il re chiede quindi al poeta di rimettersi al lavoro, e questi, dopo un anno, si presenta con una composizione più breve, dove le regole della comunicazione formale sono sconvolte e profanate: non più un monumento degli eventi, ma un nuovo evento. Qui il cantore ha impiegato tutto il carico di creatività e ne è orgoglioso.
Ma il re chiede ancora qualcosa di più sublime e concede di nuovo un anno di tempo.
Trascorso quel periodo il poeta torna, in preda a un sorta di rapimento mistico, e pronuncia il poema consistente in una sola riga.
Questa volta la sua scrittura rientra nell’ambito del sacro, è simile a una preghiera segreta: è il regno del poetico, dove la lingua quasi scompare, perché più niente deve essere capito, ma tutto sentito.
Il re in questo racconto assolve un compito importantissimo: paragonabile alla buona coscienza di chiunque abbia a cuore la qualità della comunicazione, incita il poeta a migliorare la sua ode, a plasmare la forma del suo scritto. Chiede qualcosa che non sia trascrizione di fatti, ma una rivisitazione, pur aderente alla realtà, ma che trasmetta qualcosa di più importante.
Così la narrazione della scienza non può essere solo una riproduzione delle regole convenzionali.
L’obiettivo è la comunicazione o l’esatto rapporto fra parole e cose?
Se è la comunicazione, allora lo scrivere di scienza diventa un progetto di condivisione del sapere che coinvolge l’autore e attinge alla sfera della sua soggettività. Una narrazione non è solamente un insieme di frasi e di concetti, ma presuppone, fra gli elementi del racconto, una relazione che realizza una trasformazione dei contenuti. Ciò che entra in gioco è la relazione fra gli eventi.
Si può parlare di scienza con un romanzo, un articolo di giornale, una piéce teatrale?
Insomma azzarderò una possibile risposta: una cosa è il momento specialistico della ricerca, ambito degli addetti ai lavori, con un linguaggio interno appositamente costruito, altra è la comunicazione.
Fare scienza è anche comunicare scienza, perché la scienza pensa, ma deve fare soprattutto pensare.
La cultura gentiliana ha iniziato una separazione e gerarchizzazione fra scienza e letteratura, fra scienza e arti che continua ancora oggi.
Se la scienza è un tentativo di conoscere il mondo attraverso diversi occhiali, la letteratura è un tentativo di raccontare il mondo, a cui lo scrittore dà significato insieme al lettore.
Scienza fa pensare a regola, numero, legge, metodo, esercizio, formula, dogma, nozione… ma anche idea, ricerca, sperimentazione, scoperta… Letteratura fa pensare a lettere, parole, ma ad literam significa precisione, e anche idea, ricerca, sperimentazione, scoperta…
Parlare di scienza è parlare anche di persone, di scienziati e delle loro scoperte, è parlare di un’attività che ospita conflitti intellettuali, opposizione di modelli teorici; la storia della scienza è una storia di creatività, di dubbi, prove, errori e casualità.
Così come è l’operato del poeta: intuizione e prova, errore e casualità, lavorio di lima.
Ma ciò che accomuna è il medesimo rigore, il non accontentarsi mai, la perseveranza che poi arriva a vestire di cultura l’intuizione. Quel rigore che rifugge la superficialità, il così è se vi pare, il buon senso comune, il così è perché tutti lo dicono, così è perché così è sempre stato.
Prendiamo per esempio la dicotomia efficienza/efficacia.
Il termine efficiente è usato in senso fisico o economico, come ciò che assicura il prodotto maggiore a parità di input nel processo di acquisizione della cultura scientifica.
La scienza nelle proprie scelte comunicative e linguistiche si pone, come necessità metodologica, la realizzazione della massima efficienza: il più alto grado di rigore nell’espressione dei suoi contenuti.
Il linguaggio della poesia invece è in primo luogo efficace, ricco di una forza espressiva e di comunicazione che si realizza attraverso l’uso di artifici retorici, di termini dotati di ampia libertà semantica, l’evasione dai nessi sintattici logico-formali.
Il grado poetico viene introdotto nella scienza attraverso immagini e metafore che permettono l’intuizione sintetica e la comunicazione.
L’incontro fra scienza e linguaggio è quindi un incontro catastrofico.
Come nella tragedia greca la catastrofe è il punto di passaggio inatteso da uno stato all’altro, così la realizzazione di un atto comunicativo, nella trasmissione di un contenuto scientifico, diventa momento risolutivo, scioglimento dell’azione. Quando si comunica si realizza il cambiamento di stato, lo scioglimento dell’azione, la catastrofe appunto.
La comunicazione allarga il campo semantico di una parola, la scienza lo restringe, nel precisarlo.
La comunicazione nella scienza è il luogo in cui il caos delle intuizioni si trasforma in una struttura di significati. I chimici lo chiamerebbero passaggio di stato.
La letteratura è il luogo in cui i sogni si trasformano in parole, è una manifattura, una sorta di mensa di significati. L’espressione poetica aumenta ancora l’efficacia espressiva, ma diminuisce l’efficienza, la fedeltà con cui viene riprodotto il contenuto scientifico teorico.
L’astrofisico John Barrow sostiene che nessuna descrizione non poetica della realtà potrà essere mai completa.
Se poi spostiamo la nostra attenzione sulla dimensione sociale della scienza e ci domandiamo quali ricadute provoca la scienza nella vita della collettività, comprendiamo quanto siano importanti i modi della sua comunicazione. E allora sono da sfuggire alcuni pericoli ricorrenti: le esagerazioni e l’assioma che procede per principi universali e decontestualizzati.
La scienza attuale non potrebbe esistere senza il linguaggio, perché il linguaggio è scienza primitiva. Comunicare la scienza diventa quindi un momento costitutivo della prassi scientifica che costringe addirittura a ripensare la scienza.
La parola è il sommo strumento della comunicazione ed è attraverso la lingua che vengono formalizzati i ragionamenti logici e le regole della pratica. Divulgazione cela vulgus, popolo, massa, che implica informare e comunicare, presuppone un’interazione col mittente.
Al referente non si richiede solo ascolto passivo “l’amatore passivo che ascolta la musica senza saperla eseguire” come dice Roland Barthes, si chiede di conoscere e di usare la scienza.
La parola è il sommo strumento della comunicazione poetica, assume un’alta densità simbolica, la parola si veste di tutti i sensi per dire l’indicibile. Per cercare una “finita infinità”.
C’è una solitudine di spazio,
una solitudine di mare, una di morte, ma
faranno lega tutte quante
a paragone con quell’estremo punto,
quella polare ritrosia
di un’anima ammessa a se medesima.
Finita infinità.
Emily Dickinson
La poesia fa un uso emozionale del linguaggio naturale, moltissima strada separa il dato iniziale della conoscenza che la poesia elabora. Ridisegna a ogni lettura e a ogni ascolto scenari nuovi, contenuti variabili in base al bagaglio culturale ed emozionale del pubblico.
E allora c’è forza e forza: qual è più forte, la forza della fisica o la forza della poesia?
Scienza e poesia fanno ricorso a un linguaggio figurato e ambiguo, per comunicare. Esempi ricorrenti sono le metafore, di cui la scienza e la comunicazione della scienza sono ugualmente ricche: buchi neri, sapore e colore dei quark, numeri abbondanti e gemelli.
Molto del lavoro editoriale dell’astrofisica Margherita Hack, più volte ospite di Griseldascrittura, è stato dedicato alla divulgazione della scienza, una divulgazione intelligente e accorta, che ha saputo catturare la curiosità dei lettori comuni e portarli per i cieli verso orizzonti prima visitati solo da specialisti.
Il fascino delle stelle è capace di catturare tutti, anzi stella è una parola così usata, fino a diventare uno stereotipo.
Per stella nel linguaggio comune si intende un corpo celeste che emana luce.
Certo è che astro e cielo ci portano in alto, richiamano addirittura il paradiso.
Stella è comunque un vocabolo molto usato nel linguaggio comune: può essere cadente, polare, filante, errante, nebulosa… Si indicano come stelle occhi lucenti e brillanti, occhi intelligenti e meravigliosi. Stella significa anche destino, sorte, fato e avere una buona stella è un bell’augurio.
Stella è anche una donna bellissima, una donna ammirata, una star.
Stella alpina e stella di Natale sono fiori significativi, vedere le stelle non è augurabile a nessuno, portare alle stelle è invece auspicabile, salire alle stelle può essere appetitoso, ma pericoloso (soprattutto per la discesa!); se i prezzi salgono alle stelle bisogna preoccuparsi, avere tanto quanto sono le stelle in cielo dipende da che cosa, dipende da che cosa anche per la repubblica stellata!
Stelletta è un’attricetta con accezione non molto positiva, ma significa anche asterisco, grado e distintivo, per cui avere tante stellette è segno di prestigio e di potere (in ambedue i sensi!).
Stelloncino è un trafiletto, senza titolo, di cronaca mondana o di altro argomento leggero.
Lo stellone è il sole, la stellina è anche una pastina in brodo – incubo della mia infanzia – non molto appetitosa, mentre le stelle filanti profumano di festa e di allegria. Le Guerre stellari ricordano avventure cosmogoniche. Se la notte delle stelle emoziona i cinefili, il ristorante a tre stelle è il top per i golosi.
Se ci spostiamo sul mare troviamo le stelle di mare, ma stella è anche una piccola imbarcazione attrezzata con vela e fiocco. Per la geometria è una figura geometrica formata da un poligono regolare sui lati dl quale hanno la loro base altrettanti triangoli isoscele.
“Vergine chiara… di questo tempestoso mare stella” troviamo in Petrarca, “E uscimmo a riveder le stelle” è la magnifica chiusura dantesca.
Curiosi sinonimi sono capillizio, nutazione e asterismo. L’astronomo è detto anche stellatore e stellografo.
A noi stellografi delle parole il compito di trasformare le parole in stelle.
Scrivere di viaggi
Scrivere è mettersi in viaggio e il viaggio della scrittura è impervio, come ogni vero viaggio: bisogna avere molta determinazione, anche una buona dose di cocciutaggine, saper sollecitare e catturare emozioni intelligenti, un reale desiderio di esplorare altri spazi e altri tempi, curiosità di conoscere gli altri.
Il viaggio è l’attraversamento di uno spazio in un certo periodo di tempo.
La parola deriva dal provenzale viatge e dal latino viaticum, via-tecum, e richiama le cose che porti lungo la via, che ti accudiscono e che ti sostengono: come l’eucarestia somministrata al morente come cibo per l’ultimo viaggio.
Si può fare un viaggio a vuoto, ma anche un viaggio e due servizi.
Viaggiare in passato era legato a pericoli: briganti, naufragi, pirati… infatti spesso si dice: viaggiare è un po’ morire.
Comunque è uno staccarsi da qualcosa con cui si ha consuetudine.
Ma è anche eccitante curiosità, desiderio scoperta di chi decide di lasciare la routine e andare ad venturam.
Ognuno nascendo inizia il viaggio della vita.
Remo Bodei [9] “il viaggio imita la vita di cui contiene tutti i fattori: abbandono del noto, accettazione del rischio, incertezza, ma anche piacere e promesse di felicità”
Per molto tempo il viaggio è stato considerato un’esperienza del maschile, le donne hanno subito una secolare negazione: relegate sfera domestica, in un dove sempre molto circoscritto, in un burka o in una casa, concepita luogo dell’attesa e dell’esercizio della pazienza.
Solo recentemente, e poche, decidono di mettersi ad venturam.
C’è il viaggio di lavoro e il viaggio di piacere, ma si può anche viaggiare per viaggiare, per quel volontario perdersi che fa scrivere a Baudelaire:
Ma i veri viaggiatori partono per partire;
cuori leggeri, s’allontanano
come palloni,
al loro destino mai cercano di sfuggire
e, senza sapere perché, sempre dicono: Andiamo!
E l’anima questo veliero che cerca la sua Icaria dove vuole andare?
Non importa dove! Non importa dove! Purché sia fuori da questo mondo!
Fugaci pensieri scorrono per chi viaggia come fugaci immagini ed è come sfiorare le vite di chi s’incontra.
Il viaggio accende lo stupore, anima la curiosità, spoglia dalle abitudini, fa assaporare la libertà, libera dagli obblighi, accende speranze e attese, favorisce conoscenze, libera schemi mentali grazie al continuo confronto con le diversità.
La curiosità in passato aveva accezioni negative, veniva definita come concupiscientia oculorum; dopo Petrarca la perde e diventa spirito di ricerca attraverso il viaggio.
Ma rimane ancora lontana la concezione del viaggio moderno: prima si viaggiava per commercio, per necessità e obblighi politici, guerre, migrazioni e pellegrinaggi.
Adesso per curiosità e per piacere: vera concupiscientia.
Il Novecento si è poi caratterizzato dal viaggiare per viaggiare facendo nascere il turismo di massa, col bisogno di esotismo e di evasione.
Così il viaggiatore si è trasformato in turista.
Il vero viaggio, però, non è una vacanza, intesa come periodo di sospensione e quindi di assenza, il viaggio ha a che fare con la pienezza.
Da una parte c’è un atteggiamento di disimpegno euforico, dall’altra di impegno intellettuale, di curiosità che non si accontenta della superficie, di riflessività, di desiderio di conoscenze.
Il viaggiatore cerca vie senza mete e mete senza vie: varia, inventa, devia.
Il turista cerca mete abbreviando le vie.
Il turista ama la quantità, il viaggiatore la qualità.
Il turista torna velocemente.
Il viaggiatore prima o poi torna.
Il turista trasporta la sua quotidianità.
Il viaggiatore rompe la quotidianità, anzi spesso c’è una rottura che motiva il viaggiare: il bisogno di nuove idee e di nuove passioni
In comune hanno l’inseguire un altrove che sia sempre diverso dal loro dove.
Il viaggiatore come Ulisse insegue l’immaginazione, si esalta in una sete di curiosità stimolata da mille sirene, si misura con le tante diversità alla ricerca del senso della propria identità, si sradica dal passato per costruire una svolta in un nuovo presente per un inedito futuro.
Il viaggio, se è vero viaggio, è capace di metterti a nudo: prima di proiettarti verso un altro mondo fuori di te, ti consente di guardarti dentro e di ripercorrere le tue esperienze che appaiono in una nuova luce. E’ una sorta di discesa dentro se stessi, che può farsi ascesi meditativa, per cui occorre pazienza, fatica, profondità, ricerca del senso delle cose, ridefinire l’idea che si ha di se stessi, astrazione concettuale.
Perdersi e ritrovarsi per una mutazione, con desiderio di mutazione.
Mettere la profondità al posto della superficialità, la lentezza al posto della velocità, considerare il confine con il pretesto di scavalcarlo.
Come nella favolistica letteraria il viaggio può diventare viaggio iniziatico: l’accadere di un evento traumatico provoca la scelta della fuga che diventa viaggio, superamento di prove, intervento degli aiutanti magici, scontro con gli antagonisti, volontà di crescita, conferma dell’identità.
Gli ingredienti sono i medesimi: coraggio, sapienza, astuzia, sagacia, perseveranza…
Come le fiabe i viaggi aiutano a passare da uno status esistenziale a un altro.
Volontà di decostruire una vita per poi ricostruirla nuova di zecca, affinché l’individuo sposi la figlia del re e viva felice e contento.
E allora nasce il bisogno della scrittura, la necessità di fissare l’esperienza con le parole, un altro dove che ricerca un altrove ed è un altrove molto importante perché è capace di costruire un altro dove, il dove della narrazione.
Si decide di narrare quando si è consapevoli di avere qualcosa di importante da narrare, si decide di narrare alla ricerca di un altro io.
L’io narrante si scinde dall’io narrato e la presa di distanza aiuta la formazione di una nuova identità, di cui si ha consapevolezza al momento in cui si legge o si sente narrare, proprio come Ulisse che piange per la prima volta a sentire il cantore cieco narrare le avventure che pur aveva vissuto.
La narrazione di fatti e di avvenimenti lascia il posto a riflessioni, ad analisi esistenziali e allora il filo della scrittura si fa più sottile, alla ricerca di una calviniana leggerezza, che permetta alla parola di evadere la cosa che rappresenta, cogliendone il succo.
E allora il filo della scrittura diventa metafora della sostanza pulviscolare del mondo.
Scrivere in connessione
A volte ho la sensazione che i comportamenti di ognuno siano prescritti e che non si riesca a vivere in modo autentico, ma si interpreti una vita senza sapere bene chi è l’autore del copione e chi sarà il regista.
Sembra di assistere a una sorta di messa in scena di un io performativo: l’io autentico si trasforma nell’io esposto; l’io che è, nell’io che si mostra; l’io intimo, nell’io esteriore. Così il segreto diventa fiera del privato e il senso del pudore bramosia di apparire a ogni costo.
L’azione a poco a poco si omologa: si adatta, si conforma, fino a giungere a una accettazione indiscussa dell’esistente, spesso agita senza coscienza, percepita come l’unica possibile, come la migliore, senza alternative.
Al concetto di popolo e di comunità si è sostituito il concetto di massa e di moltitudine .
Alla parola compagno, con interessi e aspirazioni comuni, pari per qualità e valore, si preferisce collega, con cui si stringe un legame coatto, comunque meno familiare.
Muta profondamente il concetto di civis e di civitas.
Manca il senso dell’insieme, la disponibilità al cum, aporsi né contro, né accanto, ma veramente insieme. Gli individui sembrano raccogliersi in tante isole di simili, senza reale comunicazione.
Accanto all’idea di comunità risalente al concetto “avere doni in comune”, si è diffusa una concezione di chiusura risalente al concetto di mura, inteso come confine, protezione e difesa.
Il senso di appartenenza rischia di provocare chiusure, etnocentrismi ed esclusioni.
I mezzi di comunicazione spesso diventano mezzi di omologazione: i modi di vivere appaiono identici per tutti, anzi ci sono tanti individui che non concepiscono mondi e comportamenti diversi.
E sempre identiche sono le parole usate nel linguaggio comune, si assiste a un pericoloso impoverimento: poche parole e sempre le medesime.
“Comunicazione tautologica” la chiama Galimberti: chi ascolta percepisce le identiche cose che potrebbe dire, e chi parla pronuncia le stesse parole e concetti che potrebbe ascoltare da chiunque: il cosiddetto “buon” senso comune, si trasforma in tautologia.
Essere sempre meno se stessi e sempre più congrui all’apparato, è quel che conta.
“L’essere te stesso e conosci te stesso” indicato dall’oracolo di Delfi come la via principale per la salute dell’anima, rischia di diventare un difetto. Così la differenza e la peculiarità individuali sono percepiti come difetti e finiscono col destare sospetti.
Ma l’io attento si accorge di rischiare di perdere un bene essenziale: la padronanza di se stesso.
Parlare non basta per comunicare: tutti parlano, anzi gridano, mentre pochi ascoltano davvero.
Manca un reale terreno di interazione. Manca la volontà di mettersi in connessione.
Spesso si dimentica che alla base di un reale processo comunicativo stanno proprio le diverse esperienze del mondo.
La fine del secolo scorso è stata caratterizzata proprio dall’esplosione delle differenze: logiche, analogiche, antropologiche… così gli immigrati di ieri si sono mischiati agli immigrati di oggi in una cultura di massa all’insegna di un razzismo senza razza che ha portato molti a una chiusura preconcetta verso gli altri chiunque siano.
“Lo straniero è la faccia nascosta della nostra identità. Riconoscendolo in noi, ci risparmiamo di detestarlo in lui” (Kristeva)
Occorre quindi ritrovare in noi stessi un nuovo senso dell’identità sul quale ogni persona possa trovare sicurezza, appartenenza, radicamento sociale, ancoramento a un cosmo di valori per riconoscersi in esso e da qui guardare il mondo.
L’identità dà sicurezza e la sicurezza produce attivismo ed entusiasmo: ci sentiamo parte di un habitat che ci nutre con la sua organizzazione e i suoi valori.
Ma a restare bloccati sull’orizzonte del locale, si corre il rischio di passare dalle piccole patrie, ai localismi. Eppure il significato originario della parola ambiente è “andare da ambo i lati, andare da tutte le parti” in uno spostamento progressivo del compasso dell’orizzonte.
Ma la globalizzazione si sostanzia di politiche e strategie della non appartenenza e dello sradicamento, capaci di confezionare identità uguali senza uguaglianza.
Vero pluralismo è dare spazio e diritto al difforme, è lasciarsi attraversare dal pluralismo.
La differenza è dunque disconnessione: senso della peculiarità identitaria e nello stesso tempo apertura all’altro, tensione verso l’altro.
Ancora da un dove a un altrove, da un luogo a un non luogo ad alta potenzialità culturale.
Disposizione all’avventura, a un incontro con qualcun altro.
Acquisire concettualmente nuovi significati non basta, ogni conquista cognitiva non è tale se non provoca mutamenti comportamentali e quindi una coerenza fra forma mentis e forma voluntatis.
L’io multiplo viene esaltato da connessioni multiple: incontro, dialogo, accoglienza, scambio, arricchimento. La persona postmoderna è un soggetto plurale, mobile, migrante, portatore di un diritto alla differenza. E il postmoderno è inteso come età di trasformazione continua, di incroci e di scambi planetari.
La ricchezza delle culture è il segnale della ricchezza dell’umano.
Il mio invito è porsi in connessione e cibarsi di questa ricchezza per produrre arte e letteratura sempre più raffinati.
Hanno collaborato con l’Associazione Griselda:
Maria Chiara Acciarini
Cristina Acidini
Paola Alberti
Moniza Alvi
Maria Andreozzi
Antonella Anedda
Sabato Angiero
Julie Anne Anzilotti
Maria Argüello
Vittorio Avella
Gian Piero Ballotti
Vittoria Bartolucci
Gladys Basagoitia Dazza
Dao Bei
Gioconda Belli
Susy Bellucci
Mario Benedetti
Silva Bertocci
Elisabetta Bertol
Mariella Bettarini
Giuseppe Bevilacqua
Elisa Biagini
Riccardo Biondi
Fiorella Bomé
Alain Bonne Foit
Marco Borgianni
Alma Borgini
Alessandra Borsetti Venier
Rosaria Bortolone
Francesco Botti
Michele Brancale
Gianni Broi
Boris Brollo
Francamaria Brunetti
Brunella Bruschi
Paola Bruttini Capperucci
Massimo Bucchi
Vittorio Bugli
Serena Buonfiglio
Enrique M. Butti
Stefano Calamandrei
Franco Cambi
Andrea Campinoti
Gloria Campriani
Martha Canfield
Carlo Cantini
Laura Cantini
Pietro Paolo Capezzone
Paola Capitani
Silvia Cappelletti
Luciana Cappelli
Jean Michel Carasso
Ruth Cárdenas Vettori
Sonia Luz Cardillo
Elena Carloni
Sonia Luiz Carrillo
Gianni Cascone
Luciana Castellina
Gianni Caverni
Assan Ceeltan
Vanna Cercenà
Andrea Chiarantini
Angela Chiti
Eleonora Chiti
Lori Chiti
Ugo Chiti
Pietro Clemente
Carlo Felice Colucci
Giuseppe Conte
Martha Cooley
Annarosa Corona
Fiorella Corsi
Carla Corso
Walter Cremonte
Fabio Cresci
Anna Maria Crispino
Maria Antonietta Cruciata
Riccardo Dalisi
Andrea Dami
Anne&Mario Daniele
Vera Lúcia De Oliveira
Luca De Silva
Aldina De Stefano
Ornella De Zordo
Elisabetta Del Lungo
Maura Del Serra
Laura Delle Cave
M. Desbordes Valmore
Giampaolo Di Cocco
Paola Di Cori
Anna Di Maggio
Antonio Di Pietro
Dania Diomelli
Alba Donati
Gianni Dorigo
Giuseppe Emma
Anna Maria Fabbri
Francesco Fabbri
Anna Maria Farabbi
Simonetta Filippi
Elio Fiore
Elmerindo Fiore
Gabriella Fiori
Antonia Ida Fontana
Lorenzo Fontanelli
Valentina Fortunati
Kiki Franceschi
Elena Franconi
Dimitri Frosali
Francesco Fumelli
Nadia Fusini
Caroline Gallois
Gabriella Galzio
Chiara Gasperini
Massimo Gennari
Brigidina Gentile
Floriana Gerosa
Giuliano Ghelli
Antonella Giacon
Gabriella Gianfelici
Elena Gianini Bellotti
Alessandro Gigli
Mario Giunti
Andrea Giuntini
Angela Giuntini
Enrico Giusti
Edith Goel
Cristina Gozzini
Chiara Grassi
Carla Grementieri
Umberto Grieco
Paolo Grigò
Sandro Gros Pietro
Liliana Grueff
Gianni Guastella
Rita Guerricchio
Franco Guerzoni
Margherita Guidacci
Anna Maria Guidi
Margherita Hack
Rodolfo Hinostroza
Roberto Innocenti
Hildegard Jaekel
Lucy Jochamowitz
Vivian Lamarque
Lucio Lami
Maria Cristina Landi
Idolina Landolfi
Anna Lanzetta
Melania Lanzini
Cristina Lastri
Luciana Lazzeretti
Maria Lenti
Maria Liscio
Grazia Livi
Maria Stella Lo Re
Rosaria Lo Russo
Franco Loi
Niva Lorenzini
Paola Lucarini
Alma Luz Villanueva
Alessandra Maggi
Graziella Magherini
Dario Magnanini
Gabriella Maleti
Diego Manca
Marlène Mangold
Dacia Maraini
Wanda Marasco
Marco Marchi
Faezeh Mardani
Francesco Mari
Gigliola Mariani
Andrea Marini
Paola Marino
Tommaso Matteini
Giorgio Mayer
Albert Mayr
Litta Medri
Lea Melandri
Sara Melauri
Vidaluz Menéses
Alda Merini
Diana Miloslavich
Mary Anne Mohanray
Marzia Monciatti
Carlo Monni
Massimo Mori
Doris Moromisato
Maria Pia Moschini
Marco Munaro
Maria Nadotti
Lisa Nocentini
Alfredo Ocampo Zamorano
Giuliana Occupati
Lúcia Oliveira de Vera
Winston Orrillo
Paolo Ottaviani
David Palterer
Daniela Pampaloni
Patrizio Pampaloni
Giuseppe Panella
Paola Panichi
Linda Panunzio Bartoli
Francesco “Pancho” Pardi
Sharhnush Parsipur
Sabine Pascarelli
Paolo Pecchioli
Carlo Pedretti
Rita Pedullà
Ernestina Pellegrini
Gloria Persiani
Lorenzo Pessatini
Romana Petri
Lorenzo Pezzatini
Gino Piagentini
Angelo Pinto
Maria Piscitelli
Alice Pistolesi
Giampiero Poggiali Berlinghieri
Lucia Poli
Mario Poli
Graziella Poluzzi
Antonia Pozzi
Lucio Pozzi
Paola Presciuttini
Lilly Prigioniero
Franca Prosperi
Elena Pulcini
Barbara Pumhösel
Giusi Quarenghi
Lia Quintavalle
Leonello Rabatti
Giovanni Raboni
Maria Stella Rasetti
Lidia Ravera
Liane Reckinger
Adrienne Rich
Vanna Righi
Chiara Riondino
Marino Rosso
Remo Salvadori
Enrico Salvi
Massimo Salvianti
Elena Salvini Pierallini
Claudia Sancasciani
Emma Sangiovanni
Carla Sanguineti
Edoardo Sanguineti
Salvatore Armando Santoro
Aishé Saracgil
Monica Sarsini
Cécile Sauvage
Andrea Bruno Savelli
Angelo Savelli
Giovanni Stefano Savino
Giacomo Saviozzi
Anna Scattigno
Gianna Schelotto
Giorgio Segato
Clara Sereni
Elisabetta Servadio
Stevka Smitrau
Lucia Socci
Piera Spannocchi
Davide Sparti
Maria Luisa Spaziani
Rosalba Spini
Sergio Staino
Sabine Stange
Alessandro Starnini
Maria Tacconi
Sandra Teroni
Mariella Todaro
Elena Torre
Emanuela Torriani
Angela Torriani Evangelisti
Marco Travaglio
Ottavio Troiano
Caterina Trombetti
Claudia E. Turco
Stefano Turrini
Giovanna Ugolini
Liliana Ugolini
Rosina Valcárcel Carnero
Massimo Venturi Ferriolo
Alfredo Verde
Margherita Verdi
Alessandro Vezzosi
Valeria Vezzosi
Menéses Vidaluz
Laura Viliani
Ivano Vitali
Piero Viti
Aglaia Viviani
Aleandro Volpi
Deva Wolfram
Carmen Yáñez
Rita Zaghi
Daisy Zamora
Marco Zannoni
Andrea Zanzotto
Pietro Zecca
Mariella Zoppi
Sergio Zuccaro
I Negrita
Tetragramma
[1] V. Huxley Aldous, “Interview”, in Writers at work, ed. G. Plimpton, New York, Penguin Books, 1963.
[2] J. Gardner, Il venditore di storie,Longanesi e & C, Milano 2002.
[3] R. Barthes, Il piacere del testo,Einaudi, Torino, 1973.
[4] D. Maraini, Amata scrittura,Rizzoli, Milano 2000.
[5] P. Florenskij, Il valore magico della parola, Medusa, Milano 2003.
[6] P. Florenskij, op. cit. p. 82.
[7] G. Quarenghi, Come il pane, in Leggere e scrivere in tutti i sensi, a cura di S. Landi, Morgana Ed., Firenze 2003.
[8] J. L. Borges, Il libro di sabbia,
[9] La repubblica 24 ottobre 2006.